Pare che i lavoratori precari abbiano messo a punto un modo per autotutelarsi in caso di perdita improvvisa dell’impiego (evento non così remoto). Che fanno? “Ammortizzano” l’eventuale licenziamento preparando il cosiddetto piano B…
Roma – Nella disciplina “organizzazione del lavoro”, ovvero quella branca dell’organizzazione aziendale che si occupa di coordinare e utilizzare razionalmente le risorse umane, fa molta tendenza l’utilizzo di anglicismi vari, per definire nuovi processi sociali.
Qualche anno fa balzò agli onori della cronaca la “great resignation”, le grandi dimissioni nel mondo del lavoro, che ha avuto effetti economici per molte aziende. Il fenomeno si è sviluppato con la pandemia, che ha prodotto un cambiamento nella scala di valori a molte persone.
Poi abbiamo assistito al “quiet quitting”, l’abbandono silenzioso. Ovvero non è sempre detto che il successo personale sia coincidente con quello professionale, anzi.
Ora è il turno del “career cushioning”. Questo fenomeno riguarda lavoratori precari, che hanno una grande capacità di adattamento alle mutevoli esigenze del mercato. La possibilità che possano diventare disoccupati si può palesare da un momento all’altro, anche per cause che esulano dalla propria competenza professionale.
Una sorta di “ammortizzatore della propria carriera” utile a prevenire, forse, gli effetti di un possibile demansionamento. Il termine pare abbia origine dal “dating”, l’incontro tra due sconosciuti per avviare una relazione sentimentale o sessuale e i cui contatti iniziali sono online, ovviamente.
Il fenomeno si sta diffondendo a macchia d’olio soprattutto negli USA, in cui si è verificato un drastico taglio del personale da parte di colossi del tech come Twitter e Meta. Cosa hanno escogitato i lavoratori precari? Una sorta di auto-tutela, visto che il lavoro che si ha oggi potrebbe non esserci domani. Quindi ammortizzano un possibile licenziamento con la preparazione di un proprio piano B, aggiornando il proprio cv e gli account sociali professionali.
Il career strategist (esiste un professionista ad hoc per la materia) Abbie Martin ha così dichiarato a Bloomberg, la nota multinazionale dei mass media con sede a New York e filiali in tutto il mondo:
“Molte persone ritengono che cercare un altro lavoro mentre sono già impiegati sia barare, cosa che trovo folle. Detto questo, l’ammortizzazione della carriera consiste perlopiù nella ricerca di un nuovo lavoro, un’attività che deve essere continua, ma discreta. Un’operazione di scrematura che deve essere mantenuta sotto traccia, da condurre preferibilmente fuori dall’orario di lavoro. Per esempio in pausa pranzo, se il ritmo di lavoro non vi dà tregua e alla sera siete troppo stanchi”
Bisogna dedicare del tempo a fare crescere il networking e ad esaminare le varie offerte di lavoro per essere pronti in caso di licenziamento. Non restare ancorato a quello che si ha, ma ampliare gli orizzonti. Ci vuole una gran faccia di bronzo nel definire questo processo “ammortizzatore sociale”, almeno come viene inteso qui in Italia.
Col termine si intendono quelle misure che hanno lo scopo di offrire sostegno economico ai lavoratori che si trovano disoccupati. Riguarda i lavoratori dipendenti privati con esclusione di quelli precari. Il “sostegno economico” viene dato dallo Stato, prelevando da un fondo ricavato dalle tasse dei lavoratori stessi in parte e dagli imprenditori.
Ora immaginiamo per un attimo una giornata di un lavoratore precario statunitense. Già vive una situazione di ansia e di angoscia propria per la precarietà della sua condizione lavorativa. Poi se ha subodorato un possibile licenziamento, deve pensare ad aggiornare il proprio cv e vagliare le offerte del mercato. Praticamente uno stillicidio continuo. E lo chiamano “ammortizzatore della carriera”! Ma è vita questa?