Finora ci hanno raccontato che globalizzazione e nuove tecnologie avrebbero portato radicali mutamenti nei rapporti di produzione e nell’organizzazione del lavoro. Ne è derivata una precarietà di fatto che ha impoverito e non poco i lavoratori, complici i tempi lunghissimi necessari per passare da un impiego al successivo. Il lavoro non si trova certo dietro l’angolo come certi ottimisti vogliono far credere.
Madrid – Ora è successo che in Spagna è stato abolito il precariato. La riforma del lavoro attuata nel Paese iberico non lascia dubbi, i numeri sono inconfutabili. Nel mese di aprile c’è stato un boom di contratti a tempo indeterminato: ben 700 mila, una percentuale del 48%, quasi un contratto su due! Numeri eclatanti se confrontati coi dati precedenti del 10%, 15%, 22% e 31% nei mesi da dicembre a marzo. Un incremento continuo e costante, tanto che nei primi quattro mesi di quest’anno sono triplicati rispetto allo stesso periodo del 2021.
La ministra del Lavoro spagnola, nonché vicepremier Yolanda Dìaz, ha dichiarato con entusiasmo: “…La riforma del lavoro funziona e ha cambiato il paradigma delle assunzioni nel Paese. I numeri sono senza precedenti. Ci hanno detto che non era possibile. E invece sì, se puede!..”. C’è da segnalare un aspetto particolare della lingua spagnola. Ha una musicalità e una cadenza così profonde che rendono le parole più incisive e perentorie. “Se puede” è più deciso del nostro “si può”.
La Spagna si sta dando da fare da un po’ su questo versante. L’anno scorso è stata sistemata la questione rider con la definizione di una legge apposita. Nel 2020 ha introdotto il reddito minimo vitale e l’aumento del salario minimo legale, dimostarndosi all’avanguardia e molto attenta ai mutamenti del mercato del lavoro, sottoposto a prove durissime durante la pandemia, come ben sappiamo.
Il governo spagnolo ha dimostrato di saper fare squadra, di lavorare per raggiungere lo stesso obiettivo. In seguito a un lungo lavoro di mediazione tra i sindacati maggioritari, Uniòn General de Trabajadores e Comisiones Obreras, e l’associazione degli industriali spagnoli, Confederaciòn Espanola de Organizaciones Empresariales, sono quattro gli aspetti fondamentali della riforma: riconfigurare la gerarchia dei processi di contrattazione, definire regole più stringenti sui lavoratori assunti mediante processi di esternalizzazione, ridurre in modo risolutivo la quantità di lavoro temporaneo, normalizzare lo strumento delle integrazioni salariali.
Il fulcro della riforma è dunque la riduzione della precarietà del mercato del lavoro. Su questo punto, forti sono state le sollecitazioni dell’Unione Europea, tanto da vincolarlo all’aprovazione del Next generation plan. Quest’ultimo è il fondo di 750 miliardi di euro approvato nel luglio 2020 dal Consiglio Europeo per sostenere gli Stati membri colpiti dalla pandemia. Ebbene, la Spagna destinerà a questo obiettivo il 3,4% del PNRR.
Il piano di intervento prevede tre direzioni: decisa limitazione delle forme di esternalizzazione del lavoro mediante appalti a imprese multiservizi con contratti interinali, adeguamento dei salari dei lavoratori esternalizzati a quelli dei lavoratori interni coinvolti nel processo produttivo, riduzione delle molte forme di contratti a tempo determinato presenti.
E qui in Italia? Sembra che il ministro del Lavoro Andrea Orlando abbia ritenuto molto interessante la riforma del mercato del lavoro spagnolo. Ci sono stati infatti incontri conoscitivi con la collega spagnola. Ma con un’armata brancaleone com’è la composita compagine governativa nostrana non si andrà troppo lontano. Ognuno pensa ai propri tornaconto, mentre in Italia il mercato del lavoro registra oltre 3 milioni di contratti a termine, un vero e proprio record. Urge un intervento ad ampio respiro. Ma i nostri politici sono più interessati a risolvere la loro precarietà, mettendo al sicuro la propria cadrega piuttosto che quella dei lavoratori.