Il delitto del giornalista aveva scosso l'opinione pubblica ma i numerosi depistaggi, la scomparsa di prove e reperti investigativi, avevano reso le indagini assai difficoltose nonostante la pista mafiosa fosse da considerare quella privilegiata.
Valderice – La sera del 26 settembre 1988 veniva assassinato in un agguato in contrada Lenzi il giornalista, sociologo e attivista Mauro Rostagno, 46 anni, mentre si trovava all’interno della sua Fiat Duna DS bianca. Alcuni sicari nascosti ai margini della strada gli sparavano con un fucile a pompa calibro 12 – che scoppiava in mano a uno dei killer – e con una pistola calibro 38.
Mentre riceveva la prima fucilata, il giornalista aveva ancora la forza e la prontezza di spingere la ragazza che si trovava accanto a lui sotto il sedile dell’auto. Così Monica Serra, 25 anni, praticante giornalista, aveva salva la vita diventando l’unica testimone del delitto. Rostagno, figlio di genitori piemontesi, era cresciuto a Torino in una casa popolare di corso Dante e sin dall’adolescenza aveva manifestato il suo spirito indipendente, errante e rivoluzionario.
Leader di punta del Sessantotto italiano, marxista libertario e contrario alla lotta armata, è stato tra i fondatori del movimento Lotta Continua. Laureatosi in sociologia nel 1970, il giovane Rostagno diventava ben presto assistente alla cattedra di Sociologia dell’Università di Palermo, promuovendo e divulgando la politica del movimento di sinistra, che si scioglierà alla fine degli anni ’70, come responsabile regionale.
Dopo la chiusura a Milano del suo centro culturale di estrema sinistra “alternativa” denominato Macondo, il giornalista piemontese diventava seguace di Osho, al secolo il guru Bhagwan Shree Rajneesh. Dopo un’esperienza in India insieme agli arancioni del guru, rientrava in Italia, precisamente a Lenzi, vicino Trapani, dove fondava la comunità Saman, insieme a Francesco Cardella ed Elisabetta Roveri, detta Chicca, che diventerà la sua seconda moglie.
Una comune che, successivamente, si trasformerà in un centro terapeutico per il recupero di tossicodipendenti. Saranno le inchieste giornalistiche a segnare il suo destino: dalla metà degli anni Ottanta Rostagno inizia a lavorare come cronista e conduttore per l’emittente televisiva locale Radio Tele Cine (RTC), intervistando Paolo Borsellino, Leonardo Sciascia e indagando su Cosa nostra e sulla politica locale collusa.
A Rostagno, che seguiva con la sua trasmissione le udienze del processo per l’omicidio del sindaco Vito Lipari e nel quale erano imputati i boss mafiosi Nitto Santapaola e Mariano Agate, giungeva un messaggio in cui gli veniva suggerito di ”dire meno minchiate”. Insomma il conduttore di RTC aveva scoperchiato troppe pentole, anzi pentoloni, e doveva essere fermato. Era diventato una voce dell’informazione ”alquanto scomoda”.
Stranamente dopo la sua morte vi era stata una strana scomparsa di reperti, manipolazione di prove determinanti e diversi atti di depistaggio, oltre alla scomparsa di una videocassetta su cui il giornalista aveva scritto ”Non toccare”. Probabilmente si trattava del suo ultimo scoop sul presunto traffico d’armi nella pista d’atterraggio di Kinisia, in contrada Runza, poco distante da Trapani.
I giudici di Palermo ponevano l’accento sull’inconsistenza delle piste alternative a quella mafiosa seguita inizialmente dalla polizia e subito abbandonata dai carabinieri che tentarono di sostituirla con quella di un delitto maturato all’interno della comunità Saman o, addirittura, di farla passare come una banale ”questione di corna”.
I magistrati del capoluogo siciliano hanno giudicato gli imputati in primo grado e in appello confermando i sospetti di amici e familiari di Rostagno: con la sua trasmissione stava mettendo a nudo troppi interessi economici e politici. Intrecci con i poteri occulti, nuove alleanze e il grande business del controllo degli appalti di Cosa nostra a Trapani dove nulla è cambiato.
La Corte ha condannato all’ergastolo il boss mafioso Vincenzo Virga come mandante e Vito Mazzara come esecutore materiale dell’agguato. Quest’ultimo, in secondo grado, è stato assolto, nonostante un esame del Dna estratto dal sotto canna del fucile fosse compatibile al 99% con il suo. Una sentenza confermata in questi ultimi giorni dalla Cassazione. Si conosce dunque il mandante e non l’esecutore. Dopo 32 anni salta fuori una verità a metà che lascia ancora l’amaro in bocca. Specie per i parenti, amici e tutti i Siciliani onesti.
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