Ma sarà poi vero che conoscere la lingua anglosassone significa avere un marcia in più nel mondo del lavoro e nella conoscenza dell’hi-tech?
Do we really need it? (Ci serve davvero?) Conoscerlo è quasi una prassi, saperlo e parlarlo è praticamente obbligatorio, altrimenti rischi di trovarti “fuori dal mondo”. In sintesi è questo che ci racconta la società del terzo millennio sulla lingua inglese.
Da sempre, o perlomeno da quando riusciamo a contemplare uno spazio talmente grande da definirlo mondo, gli uomini hanno avuto la necessità di comunicare per mezzo di linguaggi tra loro simili, per evitare di compromettere qualsiasi tipo di relazione esistesse tra le parti. Perciò cominciarono ad adottare, quando possibile, un’unica lingua, che fungesse da punto d’incontro tra culture e popolazioni diversissime. Il processo si aprì con l’ascesa dell’Impero Romano, il quale fece perno sul suo potere per diffondere la propria cultura e, con essa, il proprio idioma, il latino. Con la conclusione dell’età medievale e la caduta dell’ultimo imperatore, la palma di lingua regina passò al francese.
Il Regno di Francia aveva acquisito lo status di prima potenza europea, caratteristica che seppe consolidare con l’annessione delle colonie. Il passaggio del testimone si verificò nuovamente all’alba del secolo scorso, quando la veemente crescita e le vittorie riportate in entrambi i conflitti mondiali diedero agli Stati Uniti quasi il diritto, in parte insieme alla Gran Bretagna, di ridisegnare territori e influenze sul mondo intero. Da quel momento in poi i settori economico e politico, ma anche il campo accademico e scientifico, fino ad arrivare alla cultura più popolare, e quindi a musica, cinema e altro conobbero una sempre più larga diffusione dell’inglese, culminata con l’avvento di Internet e delle nuove tecnologie.
Agendo in parallelo all’uso di cellulari, pc e reti sociali l’attuale idioma ha portato con sé tutta una serie di neologismi e termini ad hoc per supportare questo nuovo sistema di comunicazione, nonché vero e proprio stile di vita. Parole quali computer, desktop, web, browser e così via si sono diffuse in modo piuttosto facile nella quotidianità e l’attitudine, oltre che la frequenza con cui li adoperiamo, li rende essenzialmente parte integrante di molti vocabolari, tra cui quello del nostro paese. L’Italia, d’altronde, non è mai riuscita a rivestire un ruolo di rilievo nel panorama tecnologico o in quello economico, perciò non ha saputo (e neanche troppo voluto) opporre resistenza a questa nuova ondata lessicale.
Eppure noi italiani siamo stati in grado di spingerci oltre: esistono infatti una moltitudine di vocaboli, sempre in aumento, che stanno invadendo la nostra attualità, mentre altri lo hanno già fatto da tempo. Guardiamo ad esempio il mondo del lavoro, dove è ormai più semplice sentir parlare di business piuttosto che di affare, oppure usare il più comodo budget per indicare una ben definita somma in denaro, oppure ancora meeting quando si intende proprio un incontro di lavoro (come già suggerisce il suo significato letterale).
Giungendo alla più recente attualità troviamo il caso probabilmente più eclatante ed emblematico di tutti: con la sua ampia diffusione, la piattaforma YouTube, nella comunità italiana, si è resa veicolo di trasmissione di termini forse già conosciuti, ma che in questo palcoscenico sono diventati veri capisaldi del linguaggio comune. Unboxing, cringe, dissing, reaction e challenge sono alcuni tra i termini che più ascoltiamo e assimiliamo (senza però averne troppa consapevolezza) quando scegliamo di guardare un video. Come se spacchettare, essere in imbarazzo, insultare, reazione e sfida siano improvvisamente usciti dai nostri dizionari o diventati obsoleti. Tanta è la volontà di sentirci più vicini ai modelli americani e cercare di essere sempre in tendenza che abbiamo sentito la necessità di adattare persino i nostri vocaboli, originando un brutto e inutile refuso degli originali: unboxare, cringiare, dissare, reactionare.
Questo è certamente il peggior uso, anzi abuso che potessimo fare della nostra lingua, perché, invece di dare lustro al nostro patrimonio e perciò alla nostra cultura, siamo finiti per auto soggiogarci alle intenzioni di chi ritenevamo essere i più influenti. Con ciò non si intende certo sminuire la rilevanza della lingua inglese, ormai metro di condivisione e di contatto di tutto il mondo, ma più semplicemente invitare gli italiani a non diventare meri consumatori di prodotti culturali altrui.
Per fare ciò sarà necessario innanzitutto tornare a concentrarci sui nostri costumi e sulle nostre eredità, dopodiché diverrà già più semplice tornare a padroneggiare una complessa ma splendida lingua qual è l’italiano. Raggiunta una tale cognizione dei propri mezzi si potrà infine rendere più proficuo uno “scambio di identità” con gli altri Paesi, compresi Stati Uniti e Gran Bretagna.
La ricchezza del nostro bagaglio culturale e linguistico può e deve essere esportata, e la tanto amata tecnologia può diventare un ottimo tramite per tale operazione. Altrimenti a cosa dovrebbe servire essere influencer?