Al momento la diplomazia e i servizi di intelligence hanno dimostrato efficienza ma rimane da sciogliere il caso Regeni a seguito delle conclusioni dei magistrati italiani: gli aguzzini verranno giudicati in Italia.
Roma – Dopo più di tre mesi di prigionia, sono stati liberati i 18 pescatori di Mazara del Vallo sequestrati a settembre al largo delle coste libiche. Per portare a termine l’operazione il presidente del Consiglio ed il ministro degli Esteri italiani si sono recati a Bengasi dove hanno anche incontrato il generale Haftar.
Così da semplice attività diplomatica la visita di Conte e Di Maio si è trasformata in una importante attività politica, istituzionale e di intelligence. Non convince infatti la storia del sequestro dei pescatori che è stata propinata all’Italia ed in particolare alla Sicilia.
Si suppone, addirittura, che ci sia un legame tra il rilascio dei pescatori in Libia ed il caso Regeni. Attenzione non è un film di spionaggio piuttosto due tristissime storie di cui noi italiani avremo fatto volentieri a meno. In effetti la tempistica lascia alimentare il dubbio, dichiarano fonti bene accreditate, sottolineando che un eventuale collegamento andrebbe “accertato”.
Anche per capire “le prossime mosse” del governo italiano sul caso del ricercatore friulano ucciso in Egitto, alla luce delle recenti dichiarazioni di Di Maio e della volontà espressa di coinvolgere l’Ue. Se questa nuova ipotesi non dovesse andare avanti, sostiene Silvia Colombo, responsabile della ricerca del programma Mediterraneo e Medio Oriente presso l’Istituto affari internazionali (Iai), “sarebbe il segnale di un passo indietro dell’Italia al fine di ridurre le tensioni con il Cairo riesplose dopo le conclusioni della magistratura italiana sull’omicidio Regeni”.
La visita di Conte e Di Maio, prosegue l’analista, si inquadra in un quadro complesso che coinvolge anche altri dossier regionali a partire dalla crisi nel Mediterraneo orientale. In effetti quello che si può ricavare da quanto accaduto è che “appare eccessivo dire che si sono resi pedine nelle mani di Haftar”.
Silvia Colombo evidenzia, peraltro, come in questi anni la posizione del nostro Paese in Libia non sia stata sempre “coerente”, con un riavvicinamento ad Haftar basato sulla sua offensiva a Tripoli, poi rivisto a vantaggio del governo di unità nazionale (Gna).
La visita del 17 scorso, aggiunge l’esperta dello Iai, non ha fatto piacere a Tripoli, ma è bene sottolineare che il ruolo dell’Italia in Libia, per lo meno in questa fase, non è più quello del passato e lo stesso Governo di unità nazionale ha altri sostenitori, a partire dalla Turchia di Erdogan.
L’Italia non è riuscita a seguire sempre fino in fondo questo rapporto con Tripoli. La Turchia, di contro e a seguito dei medesimi accadimenti, potrebbe prendere questo incontro in senso negativo, negando ogni possibilità per l’Italia di svolgere un ruolo di mediazione nel complesso rapporto del Mediterraneo orientale sempre legato, a quanto pare, a doppia mandata con quello libico.
Eppure la guerra in Libia, a due passi dalle coste europee, finisce raramente sulle prime pagine dei giornali, nonostante l’internazionalizzazione del conflitto minacci di scatenare una grave crisi nel Mediterraneo orientale, in cui sarebbe coinvolta anche la Francia, naturalmente.
In ogni caso la comunità di Mazara del Vallo, con il contributo del Governo, continua a sostenere con fermezza il processo di stabilizzazione della Libia. E la liberazione dei pescatori italiani trattenuti a Bengasi (comunque trattati bene e “prigionieri” nella palazzina dell’autorità portuale) dimostra che il governo e la Farnesina hanno lavorato con efficienza, senza clamori e alla fine hanno portato a casa i nostri connazionali senza cedere a ricatti.
Per lo meno sino ad oggi. Cercare un unico denominatore tra le due vicende, solo apparentemente diverse, rimane da accertare e valutare. Tutto è possibile ma attualmente sembrano collegate da un sottile filo rosso. La diplomazia ha lavorato egregiamente come i nostri servizi di intelligence. Adesso la patata bollente si chiama Al Sisi e il suo Paese non sicuro.
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