La sopravvivenza del più forte è un concetto aberrante. I medici hanno il dovere di aiutare chiunque nel rispetto delle norme etiche e deontologiche. Magari ripassando il giuramento fatto al padre della Medicina.
Roma – Nel giuramento di Ippocrate, medici chirurghi e odontoiatri giurano di ”esercitare la medicina in autonomia di giudizio e responsabilità di comportamento contrastando ogni debito condizionamento che limiti la libertà e l’indipendenza della professione, di curare ogni paziente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna, promuovendo l’eliminazione di ogni forma di disuguaglianza nella tutela della salute”.
Eppure sembra che nella prima fase della pandemia alcuni medici siano venuti meno a tale giuramento, trovandosi nella condizione di dover scegliere quali pazienti ammettere in terapia intensiva. E un documento elaborato dalla Fnomceo (Federazione nazionale degli Ordini dei medici) di concerto con la Siaarti (Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva) segnala che potrebbe succedere nuovamente durante questa seconda ondata.
Il testo recita che, nonostante il fine del medico sia quello di evitare ogni discriminazione nella cura dei pazienti, nelle situazioni emergenziali, “sarà data precedenza per l’accesso ai trattamenti intensivi a chi potrà ottenere grazie ad essi un concreto, accettabile e duraturo beneficio”. Bisognerà scegliere chi potrà sopravvivere e chi no? Ma quali sarebbero i criteri, coerenti con i principi etici e deontologici, che possono supportare un medico qualora venisse messo di fronte a scelte tragiche maturate dallo squilibrio tra necessità e risorse disponibili?
Sicuramente la gravità del caso clinico, la concomitanza di più patologie e la presenza di quelle pregresse, i potenziali effetti collaterali delle cure intensive, le eventuali espressioni di volontà precedenti da parte del paziente e l’età biologica che, come sottolinea il documento, non può trasformarsi in un criterio di scelta prevalente sugli altri.
Nelle aree maggiormente colpite dal virus, dove si erano registrati numerosi casi di pazienti colpiti da polmonite interstiziale e che, di conseguenza, necessitavano di un supporto respiratorio prolungato, è stato necessario assegnare le risorse disponibili mediante criteri di classificazione delle priorità dei malati basati sul principio etico di ”giustizia distributiva”.
Un concetto risalente ad Aristotele che consiste “nella ripartizione degli onori, delle ricchezze e di tutte le altre cose divisibili per chi fa parte della cittadinanza”. In poche parole una giustizia che riguarda l’equità della ripartizione, all’interno di in una comunità, dei beni materiali e morali. Teoria che poi non si traduce nella pratica quando ”onori e ricchezze” scarseggiano.
Fnomceo e Siaarti affermano che di fronte alla carenza di risorse “coloro che non sono trattabili in modo intensivo, sono comunque presi in carico prestando loro cure appropriate e proporzionate per cui vi sia disponibilità, in quanto il diritto individuale all’eguale accesso alle cure sanitarie deve rimanere il cardine della protezione che lo Stato è tenuto a fornire e che i medici hanno il dovere di garantire quale principio deontologico indissolubile”.
Inoltre, continua il testo, il ricorso selettivo a criteri che legittimino modalità di cure differenziate è giustificabile solo in caso di assoluta necessità. Applicato all’attuale realtà: un eventuale collasso delle strutture sanitarie, dovuto all’aumento incontrollato di casi positivi alla Sars-Cov-2, legittimerebbe la selezione dei pazienti salvabili?
Addirittura la Svizzera è stata ancora più esplicita, con un documento elaborato dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche, specificando le caratteristiche di chi potrebbe non ricevere le cure: ”età superiore a 85 anni o a 75 accompagnata da almeno uno dei seguenti criteri: cirrosi epatica, insufficienza renale cronica stadio III e cardiaca di classe NYHA maggiore di 1 e sopravvivenza stimata a meno di due anni”.
Per di più se i posti letto risultassero scarsamente disponibili, potrebbero non giovare di una cura i seguenti malati che soffrono di: ”arresto cardiocircolatorio ricorrente, malattia oncologica con aspettativa di vita inferiore a un anno, demenza grave, insufficienze cardiache di classe NYHA IV, malattia degenerativa allo stadio finale”.
Scelte difficili che pongono un interrogativo importante su quale sia il labile confine tra senso etico e sentimento di umanità in Paesi che, sino a prova contraria, dovrebbero essere evoluti e che, invece, lasciano intravedere scenari in cui vige un principio alla stregua di quello darwiniano della sopravvivenza del più forte.
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