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Riposto – Il mistero delle due donne ammazzate

Il comune rivierasco è ancora sotto choc per il terribile fatto di sangue che si è concluso con tre morti. I se e i ma non si contano come le polemiche, che proseguono, sul boss con “troppa” libertà. Molte le ombre sul caso.

Riposto – La riforma della Giustizia è ormai indifferibile se non vogliamo che altre vittime si aggiungano alla lunga lista di morti ammazzati per mano mafiosa. E mentre impazzava il festival di Sanremo due donne ci rimettevano la vita colpite da un colpo di pistola in testa sparato da chi avrebbe dovuto marcire in galera e invece girava libero per strada. Infatti Salvatore La Motta, detto Turi, 63 anni, ergastolano, fedelissimo del clan Santapaola, era in permesso premio ovvero in regime di semilibertà nonostante le condanne per omicidio e associazione mafiosa.

Carmelina Marino

È la mattina di sabato 11 febbraio quando alcuni cittadini segnalano il corpo di una donna all’interno di una Suzuki Ignis sul lungomare di Riposto, in provincia di Catania. Dentro l’abitacolo c’è Carmelina Marino, detta Melina, 48 anni, che presenta un buco in faccia, verosimilmente una ferita d’arma da fuoco, mortale, sparata a bruciapelo in pieno viso. Poco distante, in via Roma, stesa sul selciato del marciapiede c’è il cadavere di Santa Castorina, 49 anni, altra pallottola in testa. Ma la mattinata continua con una lunga scia di sangue: davanti alla caserma dei carabinieri di Riposto si ammazza con un colpo alla tempia lo stesso Turi, che ha rivolto verso di sé la medesima arma servita per uccidere le due donne.

Santa Castorina

Una di queste, Carmelina Marino, pare avesse una relazione sentimentale con La Motta, ma per quanto riguarda Santa Castorina gli stessi carabinieri stanno setacciando la sua vita personale per capire quali rapporti, se non passionali, ci potessero essere con il malvivente. Dunque ufficialmente fra i tre sembra non ci fosse alcun altro legame particolare, per lo meno al momento. In questo versante altri dettagli potrebbero emergere dalla visione dei sistemi di videosorveglianza comunale e di privati installati nelle due zone dove si sono consumati i femminicidi e dai tabulati telefonici delle vittime. Una telecamera ubicata sul lungomare ripostese, il cui video è stato sequestrato, avrebbe ripreso Melina Marino a bordo della sua auto parcheggiata sulla strada costiera.

L’omicida, appena vista l’auto della donna, sarebbe sceso dalla sua vettura, lato passeggero, per poi raggiungere la Suzuki Ignis della prima vittima. Una volta aperta la portiera, lato guida, l’uomo avrebbe fatto fuoco sulla donna a distanza ravvicinata. Successivamente La Motta sarebbe tornato sui suoi passi per poi risalire a bordo dell’auto, condotta da un altro uomo, per poi recarsi in via Roma a completare la sua missione di morte. L’accompagnatore veniva subito identificato come Lucio Valvo e fermato dai carabinieri per concorso in omicidio la stessa sera della triplice tragedia mentre stava fuggendo da casa. Fra l’ultimo omicidio e il suicidio del boss sarebbero trascorse un paio d’ore, che cosa avrebbe fatto l’assassino in questo lasso di tempo?

Don Turi, al secolo Salvatore La Motta

Il sodale del clan Santapaola, dopo il duplice omicidio, sapeva di essere braccato. In questa circostanza Turi rispondeva ad una telefonata del suo penalista, l’avvocato Antonino Cristoforo Alessi, promettendo al legale la propria costituzione ai carabinieri. Il professionista, per altro, si trovava casualmente nella caserma dei carabinieri di Riposto per seguire un altro caso giudiziario e gli stessi militari avevano suggerito al penalista di telefonare a La Motta per convincerlo  a consegnarsi:

Ho chiamato La Motta utilizzando il vivavoce e gli ho detto di costituirsi ai carabinieri e di dirmi dove si trovava – racconta il penalista – che potevano andare a prenderlo e sapendo che poteva contare sulla mia presenza per l’immediata assistenza legale. Lui mi ha risposto sto venendo, vengo io”.

Il cadavere dell’uomo davanti alla caserma dei carabinieri di Riposto Foto Ansa

Cinque minuti dopo l’uomo si toglieva la vita: “Aveva un’arma in mano e mi ha chiamato ‘Antonio– aggiunge l’avvocato – i carabinieri gli hanno intimato di posare la pistola, e poi ho sentito lo sparo“. Il detenuto La Rocca aveva ottenuto benefici per buona condotta, aveva lavorato a Riposto presso due esercizi commerciali e già dall’epoca del Covid dormiva a casa della sua famiglia. Dal 3 gennaio, finita l’emergenza pandemica, rientrava la sera al carcere di Augusta, nel Siracusano. Ma non era un criminale pericoloso?

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