E’ il titolo di un saggio di qualche anno fa, ma attualissimo, del linguista Federico Faloppa. Ovvero: le parole possono essere pietre e mostrare intolleranza più dei fatti stessi. Non esiste, infatti, solo il razzismo fisico che si manifesta con atti violenti e denigratori. Ce n’è uno strisciante e invisibile, ma proprio per questo più infido: quello delle parole.
Negli ultimi anni la cronaca è stata ricca di episodi di razzismo, espresso con atti violenti e denigratori verso chi ha la pelle di un colore diverso o appartiene ad altre etnie o professa altre religioni. A questo tipo di razzismo se ne aggiunge un altro, ahimè, più subdolo e invisibile, ma non per questo meno pericoloso. Si tratta di quello linguistico, attraverso cui si utilizzano stereotipi che descrivono in modo approssimativo e discriminatorio la realtà. E’ dura ammetterlo e constatarlo: nelle nostre società opulente, il razzismo rappresenta ancora un fenomeno sociale inquietante e di difficile soluzione. Di razzismo linguistico ne ha parlato, qualche anno fa, Federico Faloppa, docente di storia della lingua italiana e sociolinguistica all’Università di Reading, Inghilterra, nel saggio: Razzisti a parole (per tacere dei fatti).
Spesso si esprime il razzismo partendo dal linguaggio. Si usano espressioni e parole senza riflettere sul loro significato. Senza pensare che come scriveva lo scrittore tedesco e premio Nobel Heinrich Boll : “...Le parole possono uccidere…”. O, come dicevano i pellerossa, i nativi d’America: “…Un albero abbattuto da un fulmine ricresce, una ferita provocata da una freccia si rimargina. Ma, il dolore causato da una cattiva parola resta per sempre, non va via mai …”.
Poiché si camuffa, il razzismo linguistico può risultare più pericoloso e subdolo di quello fisico. In passato, la diversità riguardava i neri, i coloured afro/americani o, da noi, i terroni abitanti dell’Italia meridionale. Oggi, si parla di clandestini, extracomunitari, zingari, indesiderati, vu cumprà, ultimamente di cinesi per via del Coronavirus, con superficialità ed estrema disinvoltura. E con un’ignoranza tipicamente tecnica. Cioè, letteralmente, non si sa: di queste persone non si conoscono gli usi, i costumi, i riti, i simboli. In una parola, si ignora la loro cultura. Spesso lo si fa come un riflesso pavloviano, senza chiedersi cosa si sta dicendo, quale descrizione si sta dando della realtà. Si utilizzano stilemi, cliché, paradigmi concettuali preconfezionati, che danno una descrizione approssimativa, ambigua e discriminatoria della realtà. Negli ultimi anni si è assistito a un depauperamento e imbarbarimento del linguaggio, sia a livello politico che mediatico. Nel primo caso, ad esempio, un certo linguaggio della Lega, forza di governo fino a qualche mese fa ed in genere delle destre più retrive, ha reso consuete, fino al punto di assuefarcene, interpretazioni e letture della realtà sempre più stereotipate. Frasi tipo: gli immigrati sono troppi, sono tutti clandestini, ci stanno invadendo, non rispettano le regole, gli zingari sono tutti ladri, da quando ci sono loro le città sono meno sicure, le case popolari vengono assegnate più a loro che a noi (intesi gli italiani), ci costano 35 euro al giorno. Nel caso dei mass media a farla da padrone è la mancanza di un approccio critico, analitico e laico e del rispetto delle regole deontologiche. E’ un continuo gioco a chi la spara più grossa, voci che si sovrappongono, grida e confusione a iosa, solo per parlare alla cosiddetta pancia della gente.
La politica, la cultura e l’informazione dovrebbero giocare un ruolo chiave, fondamentale per circoscrivere ed emarginare argomentazioni e analisi offensive, trivialità e rozzezza di stile e anche atteggiamenti xenofobi. Questo fenomeno, purtroppo, si è diffuso con una rapidità impressionante in tutta Europa. Però, ad esempio in Inghilterra, gli atteggiamenti discriminatori sono sanzionati pubblicamente, a dimostrazione quanto meno che il razzismo linguistico non è stato istituzionalizzato.
Se è un dato di fatto che un certo linguaggio forte, spregiudicato è stato, da noi, appannaggio della destra, negli ultimi decenni si è assistito ad una certa omologazione della sinistra, anche su questi temi, forse per meri calcoli elettorali o per mancanza di idee. E’ altrettanto vero che la sicurezza è un tema molto sentito dai cittadini di qualunque colore politico. Però, iniziative di qualche anno fa, come le ordinanze contro i lavavetri dell’assessore Cioni a Firenze (giunta di sinistra) o la proposta dell’ex segretario del Pd Veltroni di un’ammissione a punti degli immigrati, lasciano basiti. E’ opportuno far parlare i dati e tentare di fare analisi per poi proporre soluzioni da paese civile. Secondo il Ministero dell’Interno, ad esempio, gli immigrati che delinquono sono il 4% del totale, un dato considerato fisiologico dagli studiosi di questi problemi. Inoltre, non vengono evidenziati i dati economici su cui buona parte del ricco Nord d’Italia si regge. La responsabilità di ciò è di chi fa informazione, come la fa e di chi la finanzia.
I contributi versati all’Inps degli immigrati sono il 4% del totale, cioè si deve a loro il 4% delle nostre pensioni. Non si può ignorare che, pur tralasciando l’aspetto umano e culturale dell’immigrazione per non correre il rischio di sfociare nella retorica e nel politically correct, spesso soddisfano un’offerta di lavoro manuale e dequalificante non coperta dagli indigeni. E costano pure meno, percepiscono infatti retribuzioni più basse dell’11% (dati Istat e Caritas-Migrantes). Molti di loro producono anche posti di lavoro: circa 215 mila sono titolari d’impresa. Sembra che, nei prossimi 10 anni, l’economia italiana potrebbe avere bisogno di inserirne al suo interno almeno 2 milioni con qualifiche medio/basse. Piaccia o no, ci si deve abituare all’idea e rassegnarsi che in futuro sempre più persone migreranno, cercando risorse e possibilità dove ci sono. E l’economia avrà sempre più bisogno di loro. E’ la Politica che deve dare una risposta concreta offrendo una soluzione efficace, nel rispetto della nostra carta costituzionale e delle nostre prerogative democratiche.