La ricerca mette in risalto l’autoefficacia, l’adattabilità e il senso di appartenenza come gli indicatori di benessere per i dipendenti.
Roma – Lavoro e salute: un rapporto molto intenso. Il lavoro è una parte fondamentale della vita di ogni essere umano al punto che, secondo alcune stime, occupa un terzo della nostra vita. Bella sfiga, soprattutto, per chi è costretto ad alzarsi all’alba o fare turni di notte per un tozzo di pane! E’ comprensibile, quindi, il suo impatto sulla salute di ogni persona. A tal proposito è stato condotto uno studio a cura del Mckinsey Health Institute, dal titolo “Lavorare in nove per prosperare”, come migliorare la salute e la produttività dei lavoratori. Il centro per il miglioramento sanitario statunitense di McKinsey fornisce informazioni utili su come il sistema sanitario statunitense potrebbe migliorare l’accesso dei pazienti a cure accessibili e di alta qualità.
Beh, stando allo stato attuale della sanità degli USA, in cui chi ha i soldi viene curato e chi non ce li ha può pure crepare, le informazioni date per l’accessibilità delle cure o sono fallaci o inascoltate! Secondo lo studio ci sono alcuni indicatori che producono benefici alla salute: autoefficacia, adattabilità e senso di appartenenza. Al contrario, ambienti tossici, ambiguità e conflittualità sono gli avversari da combattere. Sembra la scoperta dell’acqua calda. Non bisogna essere scienziati sociali per giungere a tali conclusioni, qualunque lavoratore vive queste condizioni sulla propria pelle! Sono sei i fattori che le aziende possono alimentare: interazione sociale, mindset e convinzioni, attività produttiva, stress, sicurezza economica e sonno. L’interazione sociale ha una forte influenza sul benessere dei lavoratori.
Un contesto con efficaci dinamiche di gruppo aiuta molto. E il management deve favorire l’inclusione e respingere i comportamenti tossici. L’autoefficacia è un’altra condizione benefica se l’individuo si sente coinvolto nel progetto. Le imprese che condividono la mission aziendale sono soggette a una crescita più veloce, in quando sono soddisfatti sia i dipendenti che i consumatori. L’appartenenza al gruppo può essere stimolata creando attività extra lavorative, che, secondo i ricercatori, migliorano la produzione ed allievano depressione, pressione arteriosa e cortisolo. Le dolenti note, invece, sono rappresentate da: insonnia, stress, e insicurezza economica. Lo stress di per sé non è negativo, a piccole dosi è stimolante per crescere e migliorare. Gli eccessi sono da evitare, perché si rischiano il burnout e i disturbi psichiatrici.
L’insonnia produce danni al lavoratore e all’azienda. Il primo, dormendo meno delle canoniche otto ore, avverte più stress, stanchezza e irritabilità. La seconda è costretta ad allentare i cordoni della borsa, in quanto costa 2280 dollari in più all’anno per le assenze del lavoratore, scarso rendimento e più probabilità di incidenti e infortuni. Un ruolo importante è la sicurezza economica, la cui penuria o instabilità produce effetti nocivi sulla salute mentale. Le aziende, negli ultimi tempi, hanno investito risorse nel cosiddetto “workplace welbeing”, ovvero il benessere psico-fisico professionale, sociale e finanziario dei dipendenti. Il problema è che questa strategia viene adottata in maniera reattiva e non in un progetto di lunga durata.
In questa prospettiva, secondo le stime, il PIL (Prodotto Interno Lordo) globale potrebbe crescere tra il 4 e il 12%. Ed è questa la criticità principale. Fino a quando il profitto, in una società di mercato, sarà il totem a cui sacrificare tutto pur di raggiungerlo, anche vite umane, qualunque strategia di miglioramento del benessere psico-fisico del lavoratore mostrerà le sue falle. Anche la succitata ricerca, alla fine della fiera, ha considerato il benessere dei lavoratori funzionale all’aumento del PIL. Ovvero, come scrisse Dante Alighieri, il Sommo Poeta: ”Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate”.