Attualmente in Italia lo stipendio degli insegnanti si aggira mediamente intorno ai 1.200 euro al mese per i primi 9 anni di servizio. In tale cifra sono escluse le ore di viaggio per i pendolari – certe volte le distanze raggiungono anche le quattro ore di treno tra andata e ritorno – i pomeriggi impiegati a compilare e correggere verifiche, le responsabilità penali a cui sono soggetti i docenti durante le visite scolastiche, i consigli di classe e gli scrutini, e in particolar modo il contributo sociale che apportano alla nuova generazione.
Qualche settimana fa abbiamo parlato di scuola, nello specifico abbiamo trattato delle problematiche che la riforma della Buona Scuola ha apportato al complesso e fragile mondo dell’istruzione. Dall’assegnazione di cattedra fino al coinvolgimento degli studenti all’interno de programma Scuola-Lavoro, la riforma del PD ha inciso in maniera importante sull’impianto scolastico, trasformando la fisionomia degli istituti in qualcosa di più simile ad un’azienda che a un luogo di formazione. Questa volta cercheremo di capire che incidenza ha il salario sul lavoro propriamente espresso dai docenti, e quali siano le potenziali conseguenze.
Non è un segreto che in Italia i professori appartengano ad una categoria maledetta. Costantemente depauperati del lavoro sociale che svolgono, vittime di luoghi comuni che ne diminuiscono l’impegno, sono loro le principali vittimi dei continui tagli all’istruzione, nonché gli stessi che costantemente cercano di trovare dei rimedi alle impietose situazioni in cui versano molti degli istituti scolastici del Bel Paese. Secondo uno degli ultimi report stilati dall’OCSE i docenti italiani si trovano al tredicesimo posto per quanto concerne gli stipendi in Europa, ben lontani dai colleghi tedeschi – premiati con un salario di circa due volte superiore rispetto a quello nostrano – e dei colleghi francesi.
Per far luce sulle dietrologie che gravano nel mondo scolastico abbiamo intervistato un docente di un liceo del centro di Milano che chiameremo Giovanni.
“…Una delle principali problematiche avvertite dal corpo docenti risiede proprio nel rapporto che essi hanno con il MIUR – spiega Giovanni -. Nessun docente sa chi faccia parte dei nuclei decisionali all’interno del ministero e questo è un problema perché sono loro la mente delle riforme. Mentre nella sfera politica è facile identificare il responsabile di una qualche riforma impopolare, risulta estremamente più complicato farlo per i Signori del ministero che, agendo nell’ombra, riescono a schivare qualsiasi critica e uscire indenni. Riforme come la Buona Scuola sono pacchetti preconfezionati che, a seconda della leader politica, vengono scelti e attuati. Non è il governo a decidere ma le menti del MIUR. La sfera comunicativa tra istituzioni e lavoratori è ormai altamente compromessa. I dirigenti ministeriali raramente si interfacciano con i docenti, salvo per questioni sindacali, e ben poco conoscono le reali situazioni in cui versano gli istituti nazionali. La domanda reale, dunque, dovrebbe essere: chi sono i dirigenti del ministero? Chi li nomina? In base a quali considerazioni propongono e deliberano soluzioni e riforme per il campo scolastico? E per quale ragione i sindacati impediscono un confronto diretto tra professori e dirigenti ministeriali? I politici vanno e vengono, loro invece rimangono…”.
I rapporti tra docenti e ministero, nella realtà di fatti, vengono strozzati dall’intromissione sindacale, che non mira in alcun modo ad approfondire e ricucire la cicatrice sociale che si è venuta a creare ma, al contrario, propende per una concertazione, impedendo il ritorno della scuola a luogo di ricerca e formazione.
Sicuramente la parte retributiva gioca un ruolo fondamentale, non nel semplice concetto economico del termine, ma in quanto vivendo in una società capitalista essa identifica il rango sociale d’appartenenza. L’immaginario del professore come appartenente alla classe medio bassa del tessuto sociale colloca nel sentire collettivo il ruolo del docente in una funzione subalterna, non aspirata, quasi di ripiego. In tale maniera il messaggio che passa nelle menti dei giovani studenti è quello di una dequalificazione del lavoro del corpo insegnante, creando per sillogismo un forte legame tra lavoro del professori e mancata aspirazione carrieristica.
Così facendo si trasmette agli studenti un messaggio estremamente diseducativo, ovvero che la cultura non permette di vivere dignitosamente, dunque è meglio investire in altre attività il proprio tempo. Possiamo dire, quindi, che il problema salariale dei docenti fuoriesce del mero contorno economico e diventa un nodo propriamente politico. Aumentare gli stipendi al fine di raggiungere un salario decoroso, per una nazione che conta circa 750.000 docenti attivi, significherebbe utilizzare circa un punto e mezzo del PIL annuale
“…Dobbiamo partire dal presupposto che la scuola è di chi lavora all’interno – aggiunge Giovanni – di chi insegna. I docenti sono la scuola, sono loro a vivere in prima persona le problematiche sociali, le emarginazioni, a dover sopperire a strutture fatiscenti, ed investire di tasca propria su progetti e laboratori. La questione dello stipendio dei docenti è semplicemente uno specchietto, ma che permette di addentrare lo sguardo nell’insieme. Il messaggio che le istituzioni fanno passare agli occhi degli alunni è che il professore sia un “poveraccio” e che in generale la cultura venga abbracciata come ultima spieggia per evitare la disoccupazione. Lo stipendio è una questione politica perché permette di capire dove il governo sia interessato ad investire, quale comparto statale gli assicuri un ritorno economico. Logicamente la mente degli alunni assorbe tutte queste informazioni, per cui ai loro occhi, specie se il contesto d’appartenenza è di buona famiglia, si creano immediatamente dei paragoni tra i genitori, magari vestiti con abiti costosi, e i professori, perché no, a volte soliti indossare vestiti consumati dal tempo. Logicamente il tutto ha delle conseguenze importanti anche nell’insegnamento nel senso stretto del termine, e indirettamente permette al Dirigente scolastico di esercitare un enorme potere di persuasione. Qualora, infatti, tra docente e preside esistessero delle discrepanze nella pianificazione del lavoro dell’anno scolastico, il primo si troverebbe costretto a tacere per evitare di perdere quei bonus economici che si acquisiscono tramite l’assegnazione di corsi di recupero o lezioni extra. Allora dobbiamo domandarci, ci sentiamo veramente sicuri ad affidare la formazione dei nostri figli a dei lavoratori che non godendo di una stabilità economica possono esteriorizzare i propri problemi sugli studenti? O, ancora più semplicemente, essere distratti da difficolta interne che possono compromettere il lavoro svolto in classe? Ad oggi possiamo dire che i docenti impegnati sul territorio nazionale, intendono il loro lavoro più come una missione che come un impiego…”.
Attualmente in Italia lo stipendio degli insegnanti si aggira mediamente intorno ai 1.200 euro al mese per i primi 9 anni di servizio. In tale cifra sono escluse le ore di viaggio per i pendolari – certe volte le distanze raggiungono anche le quattro ore di treno tra andata e ritorno – i pomeriggi impiegati a compilare e correggere verifiche, le responsabilità penali a cui sono soggetti i docenti durante le visite scolastiche, i consigli di classe e gli scrutini, e in particolar modo il contributo sociale che apportano alla nuova generazione. Appare necessario invocare le istituzioni affinché sviluppino una seria riflessione sulla necessità di riformare la scuola in senso più democratico, premere per sviluppare una discussione aperta tra docenti e dirigenti ministeriali per pianificare congiuntamente programmi volti a valorizzare il lavoro dei professori e le potenzialità dell’istruzione scolastica. In ultima analisi, la scuola per ritornare ad essere un vero e proprio centro d’istruzione deve scrollarsi di dosso le logiche di profitto che hanno posto l’insegnamento a un livello subalterno. La fuga dei cervelli è dettata da una determinata scelta politica, conseguenza della volontà di non investire su cultura e ricerca. Pagare un docente meno di un cameriere – con l’enorme rispetto rivolto a quest’ultima categoria – è inequivocabilmente una chiara scelta politica.
“…Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza…”.