NON PIU’ LUPARA MA LAUREA ALLA BOCCONI E ALTA FINANZA

La mafia cambia aspetto e metodologie. La criminalità organizzata non è più quella di una volta ecco perché occorrono maggiori risorse umane specializzate nel contrasto dei tecnici del malaffare con giacca, cravatta e laurea appesa nella parete del proprio studio

In nome della legge è un film del 1949, tra le prime opere di Pietro Germi, nel quale si narra la storia di un giovane e coraggioso Pretore che, con i pochi mezzi a sua disposizione, combatte la mafia terriera locale, circondato dall’avversione di buona parte dei notabili del piccolo centro siciliano, in un clima di diffusa omertà. La descrizione del capomafia e dei mafiosi che ne dà il grande regista, non dissimile dall’altra narrataci da Leonardo Sciascia nel capolavoro letterario I giorni della civetta, ovvero quella che per molti decenni è rimasta impressa nell’immaginario collettivo: coppola, stivali, vestito di fustagno e lupara, falsa saggezza popolare ed ignoranza assoluta rispetto a quanto accadeva all’infuori del proprio circoscritto territorio. Il loro era il mondo dell’onorata società, che di onorevole aveva ben poco, fondata sul latifondo e lo sfruttamento dei braccianti agricoli e su una ferrea distinzione tra gli esseri umani: uomini veri, mezzi uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaracquà. Per decenni la mafia nell’immaginario popolare coincideva con questa visione, un oscuro feudalesimo, che controllava e gestiva vasti territori all’interno dello Stato di diritto a prescindere dal fatto che vi fosse la monarchia o, successivamente, una repubblica democratica.

Mentre ai tempi di Germi e Sciascia, ovvero fino a quanto la mafia era prevalentemente rurale, tutti sapevano chi fosse il Padrino a cui si doveva baciare la mano per il dovuto rispetto, ora non è più così. Insomma, il mafioso era riconoscibile, come il guappo camorrista e così anche i clan familiari delle “ndrine” che infestavano la Calabria. Ma oggi, attraverso le trasformazioni che le diverse mafie hanno ben saputo fare, adattandosi ad una nuova società sempre più industrializzata e, successivamente, in mano alla grande finanza, riconoscere un componente della criminalità organizzata è assai più difficile. Sono tra noi, sono simili a noi, si vestono, parlano e si muovono come noi.  Sono così ben mimetizzati ed integrati, così abili e trasformisti, che vengono anche votati quando si candidano alle elezioni. La cosa terribile è che vengono eletti in una tale quantità che è stato necessario introdurre una norma giuridica per disporre lo scioglimento delle amministrazioni comunali e locali in cui si sia dimostrata l’“infiltrazione mafiosa”. Mette i brividi pensare che ad amministrare tanti Comuni italiani siano stati e continuano ad essere mafiosi e camorristi, il quali nutrono il solo scopo di gestione e amministrare gli interessi dei gruppi criminali.

I dati sono più che allarmanti: dal 1991 al 2019 sono stati emanati ben 545 decreti ex art. 143 del TULS (Testo Unico sugli Enti Locali così come modificato nel primo 2000 e poi nel 2018), dei quali 205 di proroga di precedenti provvedimenti. Mentre su 340 decreti di scioglimento delle amministrazioni comunali, solo 23 sono stati annullati dai giudici amministrativi. Nel biennio 2018/19 il Presidente della Repubblica ha emanato 44 decreti di scioglimento. Tra gli altri si sottolinea che ben sei comuni fanno parte della Provincia di Reggio Calabria, ove tra tutti spicca, in negativo, il Comune di Africo, che detiene il record di tre provvedimenti “dissolutori”; otto complessivamente sono i comuni siciliani sciolti, tra cui città e cittadine note come quella di Mistretta, un tempo importante centro del messinese, già sede di Tribunale, Misterbianco nel catanese,  San Cipirello comune della Città metropolitana di Palermo ed addirittura Pachino che ha dato il nome al celebre pomodorino. Si evidenziano anche i nomi di Cerignola e Manfredonia nel foggiano, mentre in Campania il Comune di Arzano è stato sciolto per la terza volta. Anche la provincia di Matera annovera in Scanzano Jonico una tale negatività. In buona sostanza il decreto presidenziale di scioglimento del consiglio comunale comporta: la cessazione della carica di sindaco, dei consiglieri, di componenti della rispettiva giunta e di qualsiasi altro incarico. Quindi, se hanno fatto affari con la mafia o la criminalità organizzata, gli amministratori ritenuti responsabili non potranno ricandidarsi alle nuove elezioni che verranno fissate.

Ma non si pensi che le centinaia di comuni sciolti si trovino solo nel centro sud della penisola, in Liguria, ad esempio, nel 2017 la giunta comunale di Lavagna è caduta anticipatamente per “condizionamenti della ‘ndrangheta”, mentre negli anni precedenti la stessa sorte era toccata alle notissime località turistiche di Ventimiglia e Bordighera, in provincia di Imperia, anche se, ad onore del vero, in entrambi i casi il provvedimento di scioglimento, era stato successivamente annullato dal Consiglio di Stato. Nel Lazio un simile destino è incorso nella storia del Comune di Nettuno ed Ostia (circoscrizione), in Piemonte, invece, il comune di Bardonecchia è stato sciolto per le medesime ragioni, così come in Lombardia dove il provvedimento è toccato al Comune di Sedriano nel 2013. Certamente il fatto che 340 tra amministrazioni comunali ed enti pubblici siano stati colpiti da decreti di scioglimento per infiltrazioni mafiose, induce ad una seria riflessione sulla necessità di vigilare quotidianamente sull’operato delle pubbliche amministrazioni e, soprattutto, deve “imporre” al cittadino una sorta di controllo ed autocontrollo che sia finalizzata ad una approfondita cernita tra le persone cui dare il proprio consenso in occasione delle tornate elettorali. Perché può anche succedere che, se il nostro Comune viene colpito da questa ammorbante illegalità, un po’ di responsabilità   vada ripartita tra l’eletto contiguo alla criminalità e l’elettore “disattento” il quale, in tale ipotesi, sarebbe da considerarsi, secondo una certa logica, peraltro avversata, simile all’ominicchio o al quaquaracqua.

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