Il diritto all’oblìo dei contenuti presenti sul Web è un tema scottante, che riguarda la privacy dell’utente nel lungo periodo. La Corte Europea si è nuovamente espressa in merito.
Roma – Una volta si conosceva l’oblìo come processo naturale di perdita dei ricordi a causa dell’attenuazione, modificazione o eliminazione delle tracce mnemoniche. Questo processo è innescato dall’inesorabile scorrere del tempo tra l’esperienza vissuta, o meglio come il livello psichico ha reagito a tale esperienza e l’atto del ricordo. Oppure quello di grandi letterati o scrittori.
Nel primo caso è proverbiale la frase utilizzata da Ugo Foscolo ne Dei Sepolcri: “Anche la Speme, / ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve / tutte cose l’oblio nella sua notte“. Nel secondo caso merita la menzione la citazione di Stanislas de Boufflers: “L’oblìo, questa seconda morte che le anime grandi temono più della prima”. Negli ultimi anni, si è parlato, invece di “diritto all’oblìo sui motori di ricerca”. A questo riguardo una sentenza della Corte di Giustizia della Corte Europea dello scorso 8 dicembre 2022, ha stabilito nuove regole. Ad esempio Google, dovrà cancellare i risultati di ricerca delle persone che abitano nell’Unione Europea (UE) se questi ultimi possono dimostrare che siano errate. Inoltre sarà necessario deindicizzarli, anche nel caso di mancato aggiornamento o dovessero risultare incresciosi per chi chiede di cancellarli.
È un tema molto delicato, che ha a che fare con la privacy, la libertà di stampa e il diritto alla conoscenza. È chiaro che le zone d’ombra sono tante. Secondo la Corte la libertà d’espressione e di stampa non sono rilevanti se le informazioni riportate sono sbagliate, pur solo in parte. Per la rimozione di contenuti ritenuti nocivi, irrispettosi o sgarbati, non c’è bisogno di una sentenza di un magistrato, ma bastano prove acquisibili in maniera ragionevole. Inoltre la Corte sostiene che i motori di ricerca dovranno smettere di fare indagini su ogni situazione per stabilire se gli argomenti trattati siano stati scelti con attenzione o meno. Va evitato il lavoro con l’essenziale rimozione dei risultati in modo proattivo dopo la ricerca. Poi c’è la vicenda delle foto presenti che devono subire immediatamente la mannaia della rimozione, poiché il loro contenuto non era online da molto tempo.
Google si è difesa, manifestando approvazione per la sentenza. Secondo il grande colosso dell’informatica, è dal 2014 che in Europa l’azienda aveva messo in pratica il diritto all’oblìo, sempre alla ricerca dell’equilibrio tra le varie norme della libertà di stampa e di espressione. Da allora sono stati rimossi ben 5,25 milioni di link che poi sono quelli interessati da circa metà delle richieste giunte. Questo è ciò che risulta dall’ultimo report annuale di trasparenza. C’è da segnalare che se Google decide di rimuovere un link, nei fatti lo nasconde, lo oscura. Ma questo succede solo per il nome della persone o dei gruppi che ne avevano fatto richiesta, mentre il sito continua a essere raggiungibile attraverso altre ricerche da parte degli utenti.
Il caso è sorto per iniziativa di due dirigenti di una società di investimenti, che hanno chiesto a Google di deindicizzare i risultati in seguito a una ricerca in cui i propri link contenevano informazioni inesatte. I due hanno chiesto a Google che correggesse le informazioni e cancellasse le foto perché fuorvianti. La Corte di Giustizia tedesca si è rivolta a quella europea per dirimere la questione, coi risultati che abbiamo visto. È chiaro che è una sentenza che va nella giusta direzione. Quando si parla del Web, qualsiasi argomentazione relativa alla reta va presa con le pinze. Soprattutto quando si va a toccare la concezione del diritto legato alla libertà, sia essa individuale, di espressione, che di stampa. Sono proprio queste a essere a rischio con la pervasività del Web e il suo dominio. Diritto all’oblìo sì, ma il pericolo più grande è “l’oblìo della memoria”!