Nella Giornata contro la violenza sulle donne il ricordo della politica cecoslovacca impiccata dai comunisti dopo essere stata prigioniera dei nazisti.
Anima libera fino alla fine dei suoi giorni, conclusi davanti al boia all’alba del 27 giugno 1950, Milada Horáková ha attraversato la storia in direzione ostinata e contraria con la feroce coerenza di chi non scende a patti con la coscienza. È stata femminista, partigiana, soprattutto patriota cecoslovacca, simbolo della resistenza tanto al nazismo quanto al comunismo. E il Novecento degli opposti totalitarismi non le ha fatto sconti: sopravvissuta alle prigioni hitleriane, è finita in quelle comuniste per uscirne soltanto il giorno dell’esecuzione, al termine di un processo farsa al quale non intese sottrarsi.
Assolta postuma da tutte le accuse dopo il ritorno della Cecoslovacchia alla libertà, oggi la sua figura è celebrata in patria tra i martiri del periodo comunista, esempio di intellettuale intransigente che sull’altare del credo democratico sacrificò la propria vita di donna non ancora cinquantenne e madre di una ragazza di appena 16 anni. Un punto di riferimento in cui il Paese si specchia ogni volta che torna a fare i conti con il proprio ingombrante passato.
Milada nasce sotto l’Impero austro-ungarico
Nata il giorno di Natale del 1901 a Praga, quando ancora la città e il Paese facevano parte del grande impero austro-ungarico, Milada cresce in una famiglia della media borghesia dalle idee progressiste, dove i genitori non tardano ad accorgersi della sua pronta intelligenza e la avviano, cosa non consueta per le giovani del tempo, agli studi superiori.
Ma la ragazza non ha soltanto una mente sveglia e interessi non comuni, è anche provvista di un carattere impavido e una naturale idiosincrasia nei confronti di ingiustizie e discriminazioni. Finisce per far politica attiva e si mette una prima volta nei guai: mentre le truppe austroungariche combattono nelle trincee della Grande Guerra, lei partecipa ad una manifestazione pacifista e viene espulsa dal liceo, primo indizio di un’esistenza vocata alla dissidenza e all’abbraccio di cause politiche impervie. Ripresi gli studi dopo l’espulsione, termina il liceo e si iscrive all’università Carolina di Praga, giovandosi come altre sue coetanee delle nuove leggi sul diritto allo studio delle donne adottate dalla Cecoslovacchia indipendente emersa dal collasso dell’Impero asburgico.
Nel 1926 arriva la laurea in Giurisprudenza e nello stesso anno Milada aderisce al Partito socialista nazionale ceco, formazione che ad onta del nome non ha nulla a che vedere con il nazionalsocialismo tedesco, ispirato com’è ad un socialismo moderato e riformista lontano dal radicalismo marxista. Durante la sua militanza si occupa dei temi già al centro del suo lungo attivismo politico: diritti civili e delle donne. L’anno dopo inizia il suo impegno al Dipartimento delle attività sociali della municipalità di Praga e sposa il compagno di partito, l’ingegnere agrario Bohuslav Horák conosciuto ai tempi dell’università. Bohuslav diventerà giornalista, sceneggiatore, conduttore radiofonico e, alla fine degli anni, Trenta assumerà la direzione del programma Radiožurnal, che diventerà l’ossatura della Československý rozhlas, l’attuale Český rozhlas, l’emittente radiofonica pubblica della Repubblica Ceca.
Una coppia di successo nella Praga anni Trenta
La prima e unica figlia, Jana, arriva nel 1934. Negli anni tra le due guerre gli Horák sono una coppia di successo, professionisti stimati celebri in tutta Praga, una bella casa con governante e tata personale per la bambina, perché gli impegni di mamma e papà sono fitti e importanti, equamente divisi tra professione e impegno politico. Soltanto la domenica rimane un’oasi di pace dedicata alla famiglia, tutta riunita attorno al desco, e nel pomeriggio si trova il tempo per una passeggiata nel centro di Praga e per un gelato. Istantanee da una stagione dorata che volge presto al tramonto.
La Cecoslovacchia nata dallo sgretolamento dell’Impero asburgico è l’unico stato dell’Europa centrale ad aver adottato la democrazia parlamentare, ma è un sistema fragile, costruito su confini arbitrari e contesi, dove convivono a fatica diverse nazionalità: oltre all’anima ceca e slovacca ancora da amalgamare, ci sono tedeschi, magiari e ruteni. Il Paese ha ereditato oltre il 70 per cento delle industrie dell’Impero austro-ungarico, in gran parte concentrate nei Sudeti, regione a maggioranza tedesca, il che colloca la Cecoslovacchia tra i primi dieci paesi industrializzati nel mondo. Circostanza che amplifica gli appetiti dei paesi confinanti. L’avanzata di Hitler in Germania, l’annessione tedesca (Anschluss) dell’Austria, la rinascita del revisionismo in Ungheria, i movimenti autonomisti della Slovacchia e la nefasta politica di appeasement (accettazione) delle potenze occidentali (Francia e Regno Unito) di fronte alle pretese territoriali di Hitler lasciano il Paese senza alleati, esposto all’ostile Germania e all’Ungheria, oltre che alla Polonia a nord.
Il 29 settembre 1938 la sigla del Patto di Monaco (firmato da Germania, Italia, Francia e Gran Bretagna, il governo di Praga non è stato nemmeno invitato) segna l’inizio della spartizione: Slovacchia e Rutenia diventano autonome, Polonia e Ungheria ottengono le porzioni di territorio che rivendicavano e non ultimo Hitler passa all’incasso facendo marciare le sue truppe su Boemia e Moravia che diventano un Protettorato di Berlino. Il Paese non esiste più, quel poco che resta è in mano alle camicie brune: coerenti con i loro ideali, Milada e il marito entrano nel movimento clandestino di resistenza. L’attività della coppia non sfugge alla Gestapo che nell’agosto del 1940 fa irruzione nel loro appartamento e li arresta. Alla scena assiste la piccola Jana. Mentre le guardie puntano la pistola alla tempia del marito e perquisiscono la casa, Milada prepara in fretta e furia le valigie come le è stato ordinato. La donna fa in tempo a consegnare alla figlia una scatola pregandola di portarla alla nonna perché provveda a bruciare le caramelle cattive che contiene. La valigia della piccola non viene perquisita, così il prezioso cofanetto, che in realtà custodisce importanti documenti legati all’attività clandestina, finisce nelle mani giuste e subito dopo in cenere, evitando che all’arresto della coppia ne facciano seguito altri.
Milada e il marito nei lager nazionalsocialisti
Marito e moglie sono trasferiti nel campo di concentramento di Theresienstadt, l’attuale Terezin, struttura a 60 chilometri da Praga tristemente famosa per essere stata il punto di raccolta di intellettuali e artisti ebrei rastrellati dai nazisti prima di essere avviati ai campi di sterminio. Da prigionieri in attesa di giudizio Milada e Bohuslav si incontrano qualche volta negli spazi comuni della grande prigione, il tempo per un furtivo abbraccio e qualche parola di reciproco conforto. Poi le strade dei coniugi si separano, avviati come sono a due diversi e interminabili pellegrinaggi tra molte prigioni tedesche.
Si rincontrano soltanto nell’ottobre del 1944 a Dresda in occasione del processo. Milada riabbraccia il marito offrendogli un pezzo di pane rinsecchito, un tesoro conservato gelosamente per quella occasione. Calma e concentrata nonostante le angherie subite durante la lunga detenzione, nel dibattimento la donna si difende da sola, parlando un fluente tedesco e contestando in punta di diritto ogni accusa che le viene rivolta: al termine ottiene la commutazione della pena capitale nell’ergastolo. Sconterà solo qualche mese: la guerra volge al termine, la spinta dell’Armata Rossa travolge i nazisti anche in Cecoslovacchia. Insieme a migliaia di altri prigionieri ed esuli cecoslovacchi i coniugi Horák tornano in patria da persone libere. Bohuslav è quasi irriconoscibile, smunto, segnato dalle torture, sopravvissuto per miracolo grazie al suo talento da disegnatore, qualità apprezzata dagli ufficiali tedeschi dei diversi campi di prigionia in cui è transitato.
Nel Dopoguerra c’è un Paese da ricostruire, una libertà da riempire di significati e contenuti. Praga non è mai stata così radiosa, agitata dalla febbrile e contagiosa felicità di un popolo che guarda al futuro con rinnovata speranza. Milada e il marito si tuffano con nuovo entusiasmo nella politica. Memori del Patto di Monaco e del voltafaccia dell’Occidente che li lasciò in balia dei nazisti, molti cecoslovacchi parteggiano per Mosca e non disdegnano finire sotto l’ala protettiva del colosso comunista che li ha liberati. Tanto più che il Cremlino nei primi mesi del 1945 e ancora nel 1946 non sembra intenzionato a condizionare le dinamiche politiche interne alla Cecoslovacchia. Alle elezioni parlamentari del 1946 il Partito comunista ottiene una forte affermazione (38% dei suffragi) ma tanto in Parlamento quanto nelle istituzioni le altre formazioni sono ampiamente rappresentante e godono di una piena agibilità politica. Candidata a Praga, Milada Horáková è eletta deputato tra le fila del suo “vecchio” Partito Nazionale Sociale e si impone tra le protagoniste della rinascita del Paese. E’ tra i parlamentari contrari all’esilio forzato della minoranza tedesca e promotrice delle prime forme previdenziali per lavoratori e reduci di guerra; assume inoltre il ruolo di presidente del Consiglio nazionale delle donne, diventando la voce delle donne cecoslovacche all’estero.
Ma la speranza del Presidente della Repubblica Edvard Beneš, promotore di una politica di buon vicinato con l’Urss che candida la nuova Cecoslovacchia a fare da ponte tra Mosca e l’Occidente, si rivela presto una pia illusione. Succede quando il governo di Praga decide – con il placet del comunisti – di accettare l’invito anglo-francese per le discussioni preliminari del Piano Marshall, lo straordinario programma di aiuti varato dagli Usa a favore dei paesi europei usciti a pezzi dalla guerra.
Mosca non è d’accordo: il denaro a stelle e strisce potrebbe sfilare Praga dal suo controllo e accompagnare il Paese verso una terzietà non gradita. Il primo ministro e leader del Partito comunista Klement Gottwald viene chiamato a Mosca e catechizzato. Al suo ritorno in patria tutto cambia: il partito ritira l’apertura al Piano Marshall, si radicalizza e intensifica la pressione sulla classe dirigente del Paese. Fino al colpo di Stato del febbraio del 1948, che segna l’inizio del controllo sovietico sul Paese.
Arrestata dal regime comunista
Alle prime avvisaglie di regime, Milada si dimette da parlamentare e aiuta molti suoi concittadini a lasciare la Cecoslovacchia. Ma quando, sollecitata da amici e parenti, si lascia a convincere a pianificare un piano di fuga per lei e la famiglia è ormai troppo tardi. La plateale dissidenza dell’ex deputata e del marito giornalista – che nel frattempo ha perso il suo lavoro in radio – , i rapporti intrattenuti dalla coppia con l’opposizione al nuovo regime, sia in patria che all’estero, terminano con l’inevitabile arresto. Otto anni dopo quell’agosto del 1941 la storia ritorna a bussare alla porta dell’appartamento degli Horák. È il 27 settembre del 1949 e gli sgherri che si presentano all’uscio hanno soltanto cambiato casacca, per il resto li muove la stessa ottusa solerzia ideologica e in faccia esibiscono il medesimo ghigno.
Cercano la deputata Milada e il marito, trovano soltanto l’uomo insieme alla figlia, costretta a fare da testimone una seconda volta alla violenza perpetrata sui genitori, accusati di spionaggio e cospirazione. Mentre la polizia politica perquisisce l’appartamento, Bohuslav fugge attraverso il balcone e si precipita in città nel tentativo di avvertire la moglie del pericolo. Non arriva in tempo, in quegli stessi minuti altri agenti stanno arrestando Milada nel suo ufficio. I due coniugi non si vedranno mai più. Aiutato da alcuni parenti e amici, Bohuslav Horák riuscirà a riparare in Germania dove per qualche tempo sarà ospitato in un campo profughi. Tenterà più volte di far espatriare almeno la figlia, fino a quando la notizia dell’esecuzione della moglie lo convincerà ad espatriare negli Stati Uniti, dove rimarrà fino alla morte.
Milada non ce l’ha fatta. Dalla cella in cui è rinchiusa le giunge l’eco di una Cecoslovacchia livorosa, aizzata dalla crescente propaganda di regime. L’ex deputata Horáková è la vittima perfetta, dipinta come una borghese raffinata e arrogante, traditrice della nazione e del proletariato, esempio deleterio di donna così lontana dal modello tradizionale da aver anteposto la carriera ai doveri familiari. La politica del fango acceca le menti e precipita il Paese in un’isteria collettiva: almeno 6mila consigli di fabbrica inondano i giudici di lettere sprezzanti e denigratorie sull’imputata invocando una pena esemplare.
Ma per far crollare Milada Horáková non basta un manipolo di maldestri inquisitori. Per quanto si alternino nel sottoporla a lunghi ed estenuanti interrogatori – durano anche tre giorni e tre notti di seguito – la donna non confessa, una tenacia che rompe gli schemi del classico processo stalinista volto ad annichilire il detenuto con torture e lunghi isolamenti fino a convincerlo della sua colpevolezza. Sfiniti dal trattamento disumano, molti finiscono per confessare reati non commessi e confermare l’impianto accusatorio. Non è il caso di Horáková, ferma e risoluta anche quando le viene comunicata la falsa notizia della morte del marito e del suocero. Di fronte agli inquisitori l’imputata si assume la piena responsabilità delle sue azioni ma nega possano essere materia di reato e per farlo si concede il lusso di spiegare agli interlocutori i rudimenti della democrazia.
Contro Milada Horáková un processo farsa
Il processo a Milada e altri undici coimputati comincia nel maggio del 1950. Il regime ha deciso di farne uno spettacolo pedagogico rivolto alle masse da educare e intimidire, per questo ampi stralci del dibattimento vengono trasmessi in radio. Esiste perfino un video che immortala proprio Milada Horáková durante la deposizione in aula. Se doveva essere uno spot a favore del regime, visto con gli occhi di oggi appare invece un manifesto antistalinista di rara efficacia. Pur provata da nove mesi di detenzione, la Horáková è lucida e determinata, uno scricciolo di donna, poco più di un metro e sessanta, ritta come un fuso dietro la barriera di legno che divide la corte dall’imputato. Sebbene consapevole, come tutti in quell’aula, che la sua fine è segnata, si difende con coraggio e dignità senza mai indulgere al pietismo: “Mentirei dicendo che sono cambiata, che le mie convinzioni siano mutate. Non sarebbe né vero, né onesto”. Nel rarissimo documento filmato riemerso dagli archivi l’imputata diventa mattatrice di una farsa recitata da tristi comparse, si staglia fragile eppure potente come l’unica figura all’altezza della gravità del momento, consegnando ai posteri un prezioso manifesto di incrollabile fede nella democrazia. “Quello che ho fatto, l’ho fatto consapevolmente. Mi prendo tutta la responsabilità delle mie azioni ed è per questo che accetterò la punizione che mi verrà data. Continuo a sostenere le mie convinzioni”.
Quattro dei dodici imputati sono condannati a morte e tra loro c’è anche Milada Horáková, unica donna fra i 178 giustiziati durante i 42 anni della Cecoslovacchia comunista. Pur in tempi di feroce contrapposizione ideologica la condanna appare abnorme agli occhi del mondo, che infatti si mobilita con appelli e petizioni a favore dell’integerrima politica cecoslovacca colpita da accuse risibili. Ai vertici comunisti di Praga giungono telegrammi che invocano la grazia firmati da personalità come Winston Churchill, Albert Einstein ed Eleanor Roosevelt, la first lady americana che Milada ha conosciuto personalmente. Si muovono anche gli intellettuali di sinistra: Jean-Paul Sartre, Albert Camus e Simone de Beauvoir si prodigano perché vengano accolti il ricorso in appello (subito respinto) e la domanda di grazia presentata al presidente cecoslovacco Gottwald. Tutto inutile, i solerti nipotini cecoslovacchi di Stalin vogliono dimostrare alla casa madre quanto ci si possa fidare di loro, capaci di mandare a morte una concittadina protagonista della resistenza ai nazisti.
All’alba del 27 giugno 1950 Milada Horáková incontra per una ventina di minuti la sorella e la figlia per un ultimo straziante addio prima di avviarsi verso il cortile del carcere di Pankrác di Praga dove l’attende l’impiccagione. A morire ci mette quasi dieci minuti, il boia le riserva un soffocamento lento così come cinicamente raccomandato da Ludmila Brožová-Polednová, la giovane magistrato che ha rappresentato l’accusatrice al processo. Le sue ceneri vengono sparse in una località segreta che non verrà mai indicata ai familiari. Riavranno le lettere scritte da Milada durante la prigionia, e l’ultima indirizzata alla figlia vergata la notte prima di morire, soltanto quarant’anni dopo. Volevano cancellarla dal mondo e dalla storia, sarà invece la memoria del martirio di Milada e di altre centinaia di dissidenti anticomunisti come lei a spazzare via i suoi aguzzini e il regime che rappresentavano.