Sul ciottolato del quartiere “La Maddalena” a Catanzaro il corpo di un uomo è riverso a terra crivellato da 7 colpi di pistola calibro 7.65. La vittima è Luigi Silipo, membro del PCI calabrese, sindacalista e attivista sociale. In molti lo volevano morto. Ancora oggi non vi sono verità processuali.
Catanzaro – Il quartiere de “La Maddalena” è la culla degli antichi filatoi calabri. Gli stretti budelli tra i vecchi palazzi prendevano il colore delle sete adagiate sui dorsi dei muli mentre l’aria portava al naso gli aspri profumi degli agrumi e quelli più dolci del bergamotto. Nel 1965 proprio in quell’antico quartiere pregno di storia abita Luigi Silipo. L’uomo è molto conosciuto in città per il suo attivismo politico e la sua dedizione ai diritti dei lavoratori. È un sindacalista ed esponente del PCI calabrese, poi diventerà anche deputato. Tutti ruoli decisamente delicati in una regione brulla dove il miracolo italiano si è realizzato solo per metà. Le ‘ndrine ancorché sconosciute esercitano già il potere su una società ancora molto fragile, costituendo di fatto il parastato a comando del territorio. Una posizione nella società sicuramente scomoda quella di Silipo che finirà per causarne la morte il primo di aprile del 1965. Quel ciottolato del quartiere La Maddalena che una volta si tingeva dei mille colori delle stoffe più varie, ora si tinge del sangue del sindacalista raggiunto da 7 colpi di pistola, di cui due alla testa. Una tipica esecuzione di mafia, si dirà da subito.
Le indagini e le dichiarazioni del compagno
Le indagini coordinate dalla compagnia dei Carabinieri di Catanzaro paiono subito estremamente superficiali, l’approccio è decisamente quello della tragedia annunciata. L’attivismo della vittima in quel territorio aspro e difficile, in cui l’equilibrio gerarchico occulto preserva l’ordine da sempre, doveva per forza finire con la sua morte. Del caso s’interessano anche il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e il ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani. Ma nonostante il clamore mediatico e lo sbizzarrirsi dei giornali in tesi e ipotesi anche fantasiose, le sole prove fisiche, concrete, restano alcuni mozziconi di sigaretta rinvenuti vicino l’abitazione della vittima. Tutto tace fino all’anno successivo quando l’ex compagno di partito, Luca De Luca, viene espulso dalla sezione Calabrese del PCI. Si dice che il fatto avviene in seguito ad un regolamento interno del partito, scontri tra le frange più estremiste e quelle più moderate, ma poco conta. Ciò che importa sono le dichiarazioni che De Luca rilascerà poco dopo il suo allontanamento.
Il 6 settembre 1966, durante una dichiarazione spontanea, De Luca asserisce che lui e Silipo, entrati in rotta di collisione con la fazione “riformista” del partito, erano impegnati in “…Una lotta dura ed onesta per il rinnovamento del partito in Calabria“, insinuando di fatto che ciò sarebbe stato il movente dell’assassinio. Aggiunge: “…È per me orribile anche solo pensare che un compagno abbia potuto uccidere il mio caro amico Luigi Silipo, ma devo dire che è possibile“. Le dichiarazioni di De Luca nei giorni seguenti vengono riprese da importanti quotidiani nazionali come il Corriere della sera e La Stampa. Anche il fratello e noto gioielliere Raffaele Silipo avvalora la tesi di De Luca, esacerbando ulteriormente le tensioni con i vertici del partito comunista. Un grande moto di sdegno si solleva dal gruppo dirigente del PCI allora guidato dal segretario Luigi Longo. La Direzione nazionale del partito, qualche giorno dopo, pubblica un comunicato nel quale viene criticato aspramente il comportamento dell’ex compagno De Luca: ” De Luca […] aveva ed ha il dovere di portare a conoscenza, in primo luogo della magistratura che sull’assassinio del compagno Silipo ha condotto una lunga e purtroppo vana indagine, ogni elemento o indizio, che possa condurre all’accertamento della verità“. Le voci continuano a rincorrersi per settimane in uno scambio di j’accuse tra le parti, ma nulla di ciò sarà utile alle indagini.
Il comunista: l’attivismo sindacale e il rapporto con l’est Europa.
L’attivismo di Silipo in favore dei lavoratori si rivolge con maggior attenzione a contadini e braccianti che rappresentano la classe produttrice più numerosa negli anni ’60. Luigi Silipo è infatti il presidente di Alleanza Contadina e, in seguito all’omicidio, alcune testate giornalistiche lanceranno diverse congetture riguardanti un possibile movente. Proprio in quei giorni è in atto uno sciopero da parte delle raccoglitrici di bergamotto, uno sciopero fortemente sostenuto dalla vittima e mirato a focalizzare l’attenzione sulle pessime condizioni di lavoro di quest’ultime.
Sempre in quei giorni diversi testimoni riferiscono di lettere anonime recapitate alla vittima, quello sciopero durato un mese all’improvviso cessa. Conoscendo il Bel Paese possiamo solo immaginare come potesse essere strutturato e potente il caporalato criminale dell’epoca. Sicuramente quello sciopero ha causato diverse perdite economiche e potrebbe aver tranquillamente infastidito le persone sbagliate. Ad avvalorare la pista investigativa mai battuta dagli inquirenti troviamo anche il modus operandi del delitto. Un omicidio brutale, davvero simile ad un regolamento di conti. Un uomo come Luigi Silipo, in quella posizione, intrattiene ovviamente numerosi rapporti a diversi livelli. Si parla di collaborazione con i servizi segreti italiani e cecoslovacchi. Il funzionario del PCI si reca varie volte in Cecoslovacchia, dove si avvicina a Fëdor Dragutin, un dirigente del Partito comunista ceco. Lo stesso Dragutin è ospite diverse volte di Silipo a Catanzaro. Le indagini, tuttavia, non conducono a nulla, gli investigatori accertano soltanto che due uomini erano appostati nei pressi dell’abitazione di Silipo poco prima dell’omicidio, quegli sconosciuti rimarranno senza un volto.
L’omicidio del sindacalista catanzarese, in sostanza, diventa un delitto perfetto. Nessuno ha visto o sentito nulla. Nessun indizio, impronta o traccia di alcun tipo. Credo che citare il giornalista Bruno Gemelli, profondo conoscitore del caso Silipo, possa costituire la chiosa ideale. Secondo Gemelli i delitti perfetti, come quello in questione, sono da considerarsi tali “…Non per capacità e intelligenza di chi li ha commessi, ma, forse, per incapacità e inadeguatezza degli investigatori“.