Lavoro: in Italia solo l’8% ama quello che fa, la maggioranza lo subisce

Lo dice il “Gallup State of the Global Workplace”, un rapporto globale sul coinvolgimento del lavoratore che riguarda 90 Paesi.

Lo si cerca quando non c’è, lo si detesta quando si ha! “Scegli un lavoro che ami, e non dovrai lavorare neppure un giorno in vita tua”. E’ uno degli aforismi più noti di Confucio, noto filosofo cinese dell’antichità. A significare che se si ha passione per il lavoro che si fa, cresce la sicurezza, la serenità e la creatività. Ma la realtà, ahinoi, à molto più dura della teoria. La maggioranza delle persone il lavoro lo subisce e non lo sceglie. Lo si fa per campare, per sbarcare il lunario. E’ molto bassa la percentuale in Italia, solo l’8%, di chi si sente partecipe di quello che fa. E’ il risultato del “Gallup State of the Global Workplace”, un rapporto globale sul livello di coinvolgimento del lavoratore e che riguarda 90 Paesi al mondo, a cura di Gallup, un istituto statunitense di ricerca e analisi dell’opinione pubblica.

La partecipazione attiva ed emotiva dei lavoratori nel processo produttiva è risultata stagnante. Se ne deduce, quindi, che anche il loro benessere generale non sia dei migliori. Questo calo è degno di nota per il fatto che si discosta da una serie di anni caratterizzati da miglioramenti piccoli ma costanti. Non c’è speranza per i lavoratori, quindi? Sembrerebbe proprio di sì, visto che è una continua lotta quotidiana sul lavoro e nella vita privata che, influenzandosi vicendevolmente, producono effetti negativi sulla produttività organizzativa e sulla vita di relazione. E’ una magra consolazione la rilevazione che rispetto all’anno prima siamo cresciti di 3 punti percentuali, eravamo infatti al 5%. La media mondiale è del 23%, dalla quale siamo notevolmente lontani. In Europa, c’è da registrare l’ottimo risultato raggiunto, con percentuali superiori alla media, da paesi quali Islanda, Romania ed Albania, con riflessi benefici sull’aziende e sugli individui.

Nelle prime in cui si è creato una buona relazione tra management e dipendenti, il tasso di assenteismo è calato del 78%. Inoltre, sono calati il turn-over e gli incidenti. Questi dati confermano, secondo gli autori dello studio, come la partecipazione dei lavoratori fa bene alla performance e all’impresa. E’ ovvio che lavorare in un ambiente in cui vige l’armonia, produce nei lavoratori gratificazione emotiva e gradevolezza che si ripercuote positivamente sul loro benessere individuale. Invece, una situazione di conflitto e di distacco provoca ansia, stress, rabbia, da cui non può che nascere sconforto e svilimento come opposizione al contesto organizzativo che si vive. Oltre al benessere individuale, a farne le spese sono l’assenteismo e le dimissioni. Secondo Gallup, infatti, il 41% di lavoratori, globalmente, è propenso a cambiare attività. Il Belpaese, oltre al basso livello partecipativo riscontrato, ha manifestato alti tassi di stress e di afflizione, trasformatisi in prostrazione e inazione.

Appare urgente, dunque, se non altro dal punto di vista del profitto, incentivare il coinvolgimento dei lavoratori da cui scaturisce un loro maggiore benessere. E’. oltremodo necessario, tuttavia, ritornare alla saggezza contadina racchiusa nella frase “La testa non vuole pensieri”, intesa nell’accezione di preoccupazioni. Ad intendere che in qualsiasi attività che si svolge durante la giornata bisogna essere scevro da ansie, problemi, inquietudini e malinconie di sorta. E lo si pensava mentre ci si recava nei campi per il duro lavoro agricolo. Era un aforisma che scaturiva da una concezione della vita e del lavoro “slow”, che rispettava i ferrei cicli della natura. Infatti si diceva anche “Pane e cipolla, ma cuore contento”. Vale a dire che se si è sereni, basta un tozzo di pane per vivere. Ed invece la Storia ci ha imposto la frenesia ed ecco i risultati!

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