Gyotaku è una antica tecnica di stampa giapponese con cui il primo stampo viene effettuato con i pesci in carne e…lische. In Italia abbiamo una delle più brave rappresentanti di tale arte pittorica.
Roma – La cronaca del costume sociale e sempre ricca e varia. L’Agenzia Giornalistica Italia, ha pubblicato una notizia meritevole di attenzione. Si parlava di un polpo, reperibile in pescheria, arrivato dalle profondità del mar Ligure, disteso su un tavolo da lavoro, su cui veniva applicata una pennellata di nero di seppia. E per magia il mollusco è “risorto” su carta pregiata di gelso e di riso, quasi a trasformarsi in un quadro prezioso. Si tratta di una tecnica di stampa molto antica giapponese, “Gyotaku”, in cui i pesci veri sono utilizzati come matrice per l’impressione della prima impronta.
Il lavoro viene concluso dalle sapienti mani di esperti nell’arte di inchiostrare altri tipi di pesci utilizzando un pennello sottile. Una delle più valide rappresentanti di quest’arte è la genovese Nadia Auleta, maestra d’arte e pittrice, che l’ha personalizzata utilizzando anche tessuti e legno. Le sue opere sono esposte nelle più importanti gallerie in Italia e all’estero. In una sua mostra personale dell’anno scorso a Camogli (Ge) dichiarò: “Volevo rappresentare i pesci del nostro mare, ma in un modo diverso. Mi sono innamorata prima delle carte e poi della tecnica”.
L’origine di questa tecnica, risale alla fine del ‘700, quando a bordo dei pescherecci giapponesi, per esigenze concrete, dovevano essere catalogati i pesci più grandi. Non avendo a disposizione macchine fotografiche, che videro la luce nell’anno successivo, fecero di necessità virtù. Sui pescherecci non mancava nero di seppia e carta di riso. L’impronta dell’animale veniva ripresa versandogli sul corpo direttamente il colore, per poi prendere nota del peso e della misura. Era una sorta di carta d’identità del pesce, di timbro, una certificazione ufficiale, con cui si andava a vendere il pesce al mercato. L’acquirente osservava il disegno, che sanciva se il prodotto poteva essere acquistato o meno.
Col passare del tempo e coi cambiamenti sociali si è persa la praticità originaria e questa tecnica è assurta ad un ruolo significativo nella disciplina pittorica vera e propria. Da allora sono migliorate le carte sui cui vengono “dipinti” pesci di tutte le grandezze, dai più piccoli come le alici a quelle lunghi due metri come i serpenti di mare. A questo proposito Auleta ha spiegato:
“Io uso le carte pregiate fatte a mano, in particolare la Kozo, una varietà particolare di gelso asiatico, del quale viene utilizzata la corteccia che opportunamente trattata e sbiancata, contribuisce alla creazione della caratteristica tessitura di questa carta, che è tutta importata. In Italia non si trova, soprattutto quella di grandi dimensioni”.
Cambiando i tempi, è mutato anche il materiale per colorare i pesci. Oltre al nero di seppia, oggi i “maestri” giapponesi usano una china a base di carbone, il “sumi ink”. Si tratta di prodotti lavabili e, quindi, commestibili. In questo modo si rispetta la tradizione quando i pesci venivano colorati, lavati e, poi, immessi sul mercato. Della serie “lavati e cucinati”! L’etimologia del termine gyotaku deriva dal giapponese e sta a significare “inciso sulla pietra”. In realtà lo è anche nelle tradizioni popolari, tanto da essere stato tramandato fino ai nostri giorni. Anche se la velocità dei social e dell’informazione online in particolare rischia di rendere fenomeni come questi vittime dell’oblio assoluto. E quando viene cancellato il passato è come se venisse soppressa una parte della nostra umanità!