E’ probabile che presto verrà fuori la verità su basisti e collaboratori che diedero una mano a boss e gregari per organizzare la strage nei minimi particolari. Infatti mancano all’appello le persone che, all’epoca delle indagini, non furono identificate e che parteciparono all’attentato con ruoli secondari.
Firenze – Sono trascorsi 29 anni da quella terribile deflagrazione che provocò la morte di cinque persone in via Palestro a Milano. Una Fiat Uno imbottita di tritolo era stata fatta esplodere dalla mafia siciliana la sera del 27 luglio 1993 davanti alla Galleria d’arte Moderna e al Padiglione di arte contemporanea.
L’attentato con autobomba scaturiva da una serie di atti intimidatori nei riguardi dello Stato, che aveva alzato il tiro contro Cosa Nostra, che provocarono la morte di 21 persone, fra cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, oltre che gravissimi danni al patrimonio artistico nazionale.
In quella tragica serata persero la vita i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, immigrato marocchino, che dormiva su una panchina. Il vigile urbano Alessandro Ferrari si era accorto che dalla Fiat Uno, rubata poche ore prima, si sprigionava del fumo tanto da richiedere l’intervento dei pompieri che accertarono la presenza di un ordigno esplosivo all’interno della vettura che poco dopo esplodeva uccidendo i cinque uomini. L’ampio spostamento d’aria mandava in frantumi i vetri delle abitazioni ubicate in zona danneggiando diversi ambienti delle strutture artistiche e le opere in esse contenute.
Poi le indagini e i processi, avviati grazie alle rivelazioni di pentiti e testimoni di giustizia, che accertarono nel 1998 i responsabili del vile attentato nelle persone di Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli, quali esecutori materiali della strage di via Palestro ordinata dai mandanti Totò Riina, Bernardo Provenzano, Filippo e Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Giuseppe Ferro e Francesco Tagliavia.
Gli stessi giudici si dolevano, dopo le sentenze di condanna, della mancata individuazione dei basisti e dei collaboratori che operavano con i mafiosi su Milano e che a questi avevano dato supporto logistico. Fra questi la “bionda” che aveva parcheggiato l’autobomba in via Palestro la cui foto è stata ritrovata nel settembre del 1994 durante una perquisizione in un’abitazione di Alcamo, in provincia di Trapani, nella disponibilità di due ex carabinieri che detenevano un arsenale di provenienza sconosciuta, probabilmente nel possesso di agenti della Gladio, un’organizzazione paramilitare in cui erano coinvolti servizi segreti, politici e faccendieri oltre che sodali alle cosche mafiose.
La foto, contenuta all’interno di un volume di enciclopedia, era spuntata fuori grazie alle rivelazioni di un confidente del poliziotto trapanese Antonio Federico. Su quella fotografia stavano indagando i procuratori aggiunti fiorentini Luca Turco e Luca Tescaroli che ritengono di essere a buon punto con le indagini avendo interrogato la persona ritratta in quella immagine sbiadita dal tempo.
”…Si, quella donna nella foto sono io…”. Avrebbe risposto, dopo due ore e mezzo di interrogatorio, Rosa Belotti, 57 anni, imprenditrice bergamasca di Albano Sant’Alessandro, moglie del pregiudicato campano Rosario Di Lorenzo, in carcere per estorsione. La donna, difesa dall’avvocato Emilio Tanfulla, non ha negato nulla, affermando invece di essere lei la donna ritratta nell’immagine cartacea.
Grazie infatti a una foto segnaletica dell’epoca il software C-Robot, in dotazione ai Ros dei carabinieri, aveva individuato nella Belotti quella ragazza bionda, alta più di un metro e 70, gonna nera e camicetta di pizzo, che si allontanava con fare discreto dalla Uno grigia parcheggiata in controsenso in via Palestro, quando già era stato innescato il detonatore.
La Belotti, negli uffici della Dda fiorentina, pur riconoscendosi ha respinto ogni addebito sull’attentato. I magistrati Turco e Tescaroli, nel certosino lavoro di ricostruzione del sanguinoso atto terroristico, hanno rispolverato i vecchi verbali e le dichiarazioni dei testimoni ancora vivi che hanno riportato sulla scena del crimine.
Uno di questi aveva visto una “bella donna” allontanarsi da via Palestro e lo aveva riferito alla polizia che cinturava il quartiere dopo l’esplosione. Gli inquirenti intendono stabilire se quella donna sia stata o meno sul libro paga di Totò Riina e degli altri boss. E se abbia o meno preso parte all’eccidio in prima persona. Come altri.