Il medico di base: una figura che conosciamo tutti, ma che rischia di diventare una rarità nei prossimi anni. I numeri diminuiscono e le borse di studio non sono abbastanza. Il numero chiuso frena molto il ricambio generazionale della professione di Ippocrate.
Medici di famiglia addio? I medici di famiglia – altrimenti detti medici di base, curanti, o di assistenza primaria – stanno scomparendo. Nel nostro ordinamento sono considerati ufficiali sanitari di primo livello nell’ambito del SSN e si occupano di garantire il primo livello di assistenza sanitaria sul territorio. Figure dunque molto importanti, veri e propri presidi per tanti cittadini, soprattutto nei piccoli centri in cui manca un ospedale o un poliambulatorio. La carenza di queste figure professionali è sempre più allarmante. Nei prossimi anni il numero dei camici bianchi che andranno in pensione sarà drasticamente superiore a quello di coloro che accederanno alla professione.
Questo fenomeno non si è palesato all’improvviso. Nell’ultimo decennio, infatti, sono diminuiti di quasi 5mila unità. La distribuzione dei pazienti tra i medici è diversa per ogni regione. L’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) ha diffuso alcuni dati secondo cui nel Nord del Paese, in media, ad ogni medico sono assegnati 1.326 pazienti, al Centro 1.159 e al Sud 1.102, per un’utenza complessiva di 50 milioni. Gli accordi collettivi prevedono che per ogni medico il massimo degli assistiti per medico non deve superare 1.500 unità, numero che in alcune regioni, come il Veneto, è stato superato.
Uno dei motivi che hanno portato alla situazione attuale è sicuramente il fatto che siamo il paese europeo con l’età media più alta tra i camici bianchi. In Italia la percentuale di età uguale o maggiore ai 55 anni è del 54%, mentre negli altri paesi europei è notevolmente inferiore. Un altro fattore che ha inciso fortemente è stata la latitanza della programmazione e della valutazione dei bisogni sanitari per aree geografiche. Il fatto poi, che la sanità sia ormai in mano alle regioni, l’ha trasformata, per molte di esse, in un vero e proprio business.
Ora per compensare alla mancanza di dottori nei prossimi anni si è pensato di investire fondi dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il famoso PNRR, diventato, ormai, simile ad una bacchetta magica pronta all’uso per qualsiasi problema. Saranno, quindi, finanziate 900 borse di formazione aggiuntive ogni anno fino al 2025 per l’accesso alla professione. Tuttavia, come recita un vecchio motto popolare: “Mentre il medico studia, il paziente muore”. Vale a dire che, mentre i medici si formano, il problema rimane. La specializzazione, infatti, dura tre anni, e i numeri, al contrario, non aspettano.
Il divario tra medici di famiglia che si ritirano dal lavoro e chi li sostituirà entro il 2028 pare che sia tra 9.200 (i primi) e 12.400 (i secondi). Ma già nel prossimo biennio, sembrerebbe che ci sia un residuo che oscilla tra 7.700 e 13.600 unità. Al di là dei numeri, emerge con chiarezza il fatto che il finanziamento delle borse di formazione, dando per scontato che sia impiegato nel verso giusto, è comunque insufficiente rispetto ai bisogni. La perdita, difatti, non verrebbe coperta. La carenza dei medici di famiglia, va, comunque, contestualizzata nel crollo demografico che il Belpaese subisce da anni. La sostituzione non riguarda solo i medici, ma anche gli altri lavoratori che vanno in pensione.
Un problema enorme, dunque, per l’occupazione e per la previdenza. Ci pagherà le future pensioni se mancano i lavoratori? Per la sanità territoriale sarebbe un durissimo colpo da assorbire con gravi scombussolamenti sul sistema di assistenza primaria territoriale. Una politica che ha a cuore il benessere dei cittadini dovrebbe mettere al primo posto della propria agenda il welfare state. Ovvero, salute, assistenza, previdenza, scuola e lavoro. Ora, senza tentennamenti, perché è già tardi!