L'agguato è stato fulmineo e il magistrato militare è morto sul colpo. Forse ha operato lo stesso gruppo armato che si è scontrato con i militari congolesi il cui fuoco incrociato avrebbe causato la morte del nostro diplomatico, del carabiniere di scorta e dell'autista.
Kale (Congo) – E’ stato ucciso con premeditazione William Assani, 40 anni, procuratore militare capo del territorio di Rutshuru, mentre si trovava in missione lo scorso 2 marzo a Katale, a circa 50 chilometri da Goma. La località si trova ad una ventina di chilometri da Kibumba, l’agglomerato urbano dove il 22 febbraio scorso sono stati ammazzati l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e il loro autista.
L’agguato è avvenuto sulla RN2, la stessa strada che percorreva il convoglio del Programma Alimentare mondiale dell’Onu con il quale viaggiava Attanasio e che avrebbe dovuto raggiungere proprio il villaggio di Rutshuru, mandamento sotto la giurisdizione del giudice Assani. Il magistrato però non avrebbe svolto alcuna indagine sulla morte dei due italiani e del loro inserviente e né avrebbe potuto, per motivi tecnici, oltre che amministrativi.
Lo stesso Assani aveva partecipato ad una riunione sulla sicurezza dell’area teatro dei conflitti fra militari e mercenari, lo stesso giorno della tragedia. Ma il giudice non aveva alcun ruolo nelle successive indagini sulla morte violenta di Attanasio e dei suoi. Anche perché, qualora avesse voluto, avrebbe dovuto attendere il 9 marzo, data in cui si sono avuti i primi riscontri dell’inchiesta delle Nazioni Unite su quella che ancora rimane una disgrazia.
Per i protocolli di accordo tra governo congolese la sicurezza, nel momento della tragedia, era nelle mani del Programma alimentare mondiale, l’agenzia Onu che aveva organizzato lo spostamento del diplomatico. Il procuratore Assani dunque non era altro che un partecipante alla riunione sulla sicurezza ma non avrebbe indagato su nulla. Almeno ufficialmente.
L’ufficiale inquirente era stato accompagnato dal colonnello Lumbu, comandante del 3409° reggimento delle forze armate della Repubblica democratica del Congo con sede a Kahunga, all’ingresso nord di Kiwanja. Quest’ultimo è sopravvissuto ma è rimasto gravemente ferito nell’imboscata ed è stato ricoverato al Rutshuru General Hospital mentre Hassani è stato colpito da diversi colpi d’arma da fuoco automatica è sarebbe deceduto all’istante.
Il gruppo armato che ha operato l’agguato non è stato ancora identificato ma potrebbe avere una qualche relazione con le fazioni ribelli che hanno ingaggiato la sparatoria con le truppe congolesi durante la quale sarebbero morti i due italiani ed il loro aggregato. Per spiegare il perché di anni e anni di violenze e crimini orrendi fra le opposte fazioni è bene ricordare che in Congo diversi Paesi europei, fra cui l’Italia, hanno enormi interessi economici.
L’instabilità, lo scarso controllo, l’intervento da parte dello Stato e la frammentazione della regione sono legate imprescindibilmente alle sue ricchezze minerarie: rame, cobalto, coltan, zinco, alluminio, cadmio, petrolio, legno, diamanti e oro. Insomma materie prime che fanno gola a mezzo mondo. Nella RDM, che una volta si chiamava Zaire, può accadere di scavare sotto casa e scoprire un giacimento d’oro.
In Congo 84 milioni di persone vivono per oltre il 50% in assoluta povertà, mentre il Paese è talmente ricco da poter sfamare non solo l’Europa intera ma almeno un’altra decina di nazioni. Tanti, troppi Paesi occidentali sfruttano i bambini che lavorano in condizioni estreme, scavando a mani nude la terra per portare alla luce minerali che si trovano in terreni con buche profonde fino a 25 metri in cui cadono e muoiono fra l’indifferenza di tutti.
Il commercio dell’oro costituisce una delle maggiori entrate illegali, pari a centinaia di milioni di dollari l’anno, tanto che i ricercatori dell’agenzia specializzata dell’Onu ritengono siano utilizzati per finanziare i gruppi armati congolesi e stranieri mentre le reti criminali transnazionali operano soprattutto nei Paesi limitrofi come Uganda, Ruanda, Burundi e Tanzania.
Tornando a casa nostra c’è anche l’Italia che lucra sulle risorse del Congo. Lo attesta un rapporto dal sodalizio d’inchiesta Re:Common del novembre 2020 che ricostruisce gli aspetti controversi riguardanti due licenze ottenute dall’Ente nazionale idrocarburi nel Paese africano, presente fin dal 1968, e che sono finite sotto la lente della magistratura.
Con tutti i vertici italiani dell’Eni, fondata da Enrico Mattei, che ne dovranno rispondere.
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