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Istat, Italia sempre più povera: crolla del 4,5% il potere d’acquisto dei salari

L’economia italiana cresce ma aumenta la povertà assoluta, l’9,8%. Da noi è indigente il 14% dei lavoratori. In Francia il potere d’acquisto salito dell’1,1%, in Germania del 5,7%.

Roma – Un paese sempre più vecchio e più povero, con lavoratori sfruttati, sottopagati e sempre più sull’orlo dell’indigenza. E’ a dir poco drammatico il quadro che emerge dal 32° Rapporto annuale dell’Istat presentato oggi e che dà la dimensione della crisi che investe l’Italia, a differenza di altri Paesi europei che invece “tengono” nonostante tutti i problemi degli ultimi anni. Ed è una crisi che comincia nel mondo del lavoro per riversarsi sugli altri settori della vita quotidiana.

il Pil reale (quello in volume) in Italia, solo a fine 2023 è tornato ai livelli del 2007. In 15 anni però si è accumulato un divario di crescita di oltre 10 punti con la Spagna, 14 con la Francia e 17 con la Germania. Lo si legge nel Rapporto annuale, dove si evidenzia che, rispetto al 2000, il divario è di oltre 20 punti con Francia e Germania, e di oltre 30 con la Spagna. Tra il 2014 e il 2023 l’incidenza di povertà assoluta individuale tra gli occupati ha avuto un incremento di 2,7 punti percentuali, passando dal 4,9% nel 2014 al 7,6% nel 2023.

Il divario con Francia e Spagna

Nel 2023 in Italia, segnala l’Istat, il Pil è aumentato dello 0,9% a fronte dello. 0,7% in Francia e del 2,5% in Spagna, mentre la Germania ha registrato un calo (-0,3%). Secondo le stime preliminari, nel primo trimestre del 2024 la crescita congiunturale dell’economia è stata dello 0,7% in Spagna, dello 0,3% in Italia e dello 0,2% sia in Francia sia in Germania. Al netto degli effetti di calendario, sottolinea l’Istat, la crescita acquisita per il 2024 sarebbe dell’1,6% in Spagna, dello 0,5% in Francia e Italia mentre la Germania dovrebbe registrare un -0,2%.

Produttività bassa e investimenti deboli

L’Istat sottolinea che “la stagnazione della produttività del lavoro è uno degli elementi che ha caratterizzato il debole andamento del Pil in volume negli ultimi vent’anni e il conseguente allargamento del divario di crescita con le altre principali economie dell’Ue. In volume, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto di solo l’1,3% tra 2007 e 2023, contro il 3,6% in Francia, il 10,5% in Germania e il 15,2% in Spagna”. Nel sistema delle imprese, in Italia, il livello della produttività (valore aggiunto per addetto) a prezzi correnti nella manifattura è inferiore a quello osservato in Francia e Germania solo nel segmento delle micro e piccole imprese, che però hanno un peso maggiore nel nostro Paese. Nei servizi, invece, le imprese italiane mostrano una produttività inferiore in tutte le classi dimensionali.

Uno degli elementi che concorre a spiegare la bassa crescita della produttività, spiega l’Istat, può essere rintracciato nella dinamica degli investimenti. Questa è rimasta a lungo depressa, recuperando però decisamente nell’ultimo triennio, anche nei confronti delle altre maggiori economie europee. La debolezza degli investimenti tocca in particolare quelli in beni immateriali e nelle attrezzature ICT, le componenti che più incidono sull’ammodernamento dello stock di capitale. In questo caso l’Italia mostra un livello sul Pil ancora inferiore rispetto alle altre grandi economie Ue, nonostante la crescita registrata nel periodo più recente.

Stipendi sempre più bassi in rapporto al caro vita

I dati parlano chiaro. Se l’occupazione è aumentata negli ultimi anni, il potere d’acquisto dei salari lordi dei lavoratori dipendenti è precipitato negli ultimi 10 anni del 4,5%. “Nonostante i miglioramenti osservati sul mercato del lavoro negli ultimi anni, si legge, l’Italia conserva una quota molto elevata di occupati in condizioni di vulnerabilità economica. Tra il 2013 e il 2023 il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde in Italia è diminuito del 4,5% mentre nelle altre maggiori economie dell’Ue27 è cresciuto a tassi compresi tra l’1,1% della Francia e il 5,7% della Germania”.

Nel triennio 2021-2023, sottolinea l’Istat, le retribuzioni contrattuali orarie sono cresciute a un ritmo decisamente inferiore a quello osservato per i prezzi, con una differenza particolarmente marcata nel 2022 (7,6 punti percentuali): tra gennaio 2021 e dicembre 2023 i prezzi al consumo sono complessivamente aumentati del 17,3%, mentre le retribuzioni contrattuali sono cresciute del 4,7%. Dopo un periodo di quasi tre anni, la dinamica tendenziale delle retribuzioni contrattuali è tornata, a ottobre 2023, a superare quella dei prezzi, grazie alla continua decelerazione dell’inflazione. In media di anno, tuttavia, la crescita salariale è risultata ancora inferiore a quella dei prezzi. Le retribuzioni contrattuali orarie nel 2023 sono aumentate del 2,9%, in rafforzamento rispetto al 2022 (1,1%) mentre i prezzi al consumo, seppure in decelerazione, hanno comunque segnato nel 2023 una crescita del 5,9%, che ha determinato un ulteriore arretramento in termini reali delle retribuzioni.

I lavoratori, nuovi “poveri”

Nei primi tre mesi del 2024 si conferma l’inversione di tendenza, osservata nell’ultimo trimestre del 2023, con una crescita delle retribuzioni contrattuali superiore all’inflazione (il 2,8%, rispetto all’1,0% di aumento medio dei prezzi nel trimestre). A livello settoriale,  la crescita retributiva è risultata più intensa nell’Industria (+4,7%) rispetto a quanto avviene nei Servizi privati (+2,3%). Considerando i rinnovi siglati fino alla fine di marzo, nel settore privato si osserverebbe, in base alle informazioni disponibili, una crescita pari al 3,1% nella media del 2024, che darebbe luogo, stante il livello attuale di inflazione, a un parziale recupero del potere di acquisto delle retribuzioni. Per la Pubblica amministrazione, in attesa del rinnovo del triennio 2022-2024, da gennaio si osserva una crescita dell’1,6%, sostenuta dall’erogazione del nuovo importo mensile dell’indennità di vacanza contrattuale.

Il reddito da lavoro ha anche visto affievolirsi la sua capacità di proteggere individui e famiglie dal disagio economico. Tra il 2014 e il 2023 l’incidenza di povertà assoluta individuale tra gli occupati ha avuto un incremento di 2,7 punti percentuali, passando dal 4,9% nel 2014 al 7,6% nel 2023. Per gli operai l’incremento è stato più rapido passando da poco meno del 9% nel 2014 al 14,6% nel 2023. Nel 2023 l’8,2% dei dipendenti era in povertà assoluta a fronte del 5,1% degli indipendenti.

L’inflazione ha penalizzato i ceti bassi

Tra il 2014 e il 2023, la spesa equivalente delle famiglie è cresciuta in termini nominali del 14% ma se si depura dalla crescita dei prezzi è diminuita del 5,8%. Secondo l’Istat l’impoverimento è stato generalizzato, ma “il calo è stato più forte per le famiglie dei ceti bassi e medio-bassi, appartenenti al primo e al secondo quinto della distribuzione” con una riduzione rispettivamente del volume degli acquisti dell’8,8% e dell’8,1%. Le famiglie del ceto medio e medio-alto, appartenenti al terzo e quarto quinto, hanno diminuito le loro spese reali in maniera più significativa rispetto alla media nazionale (-6,3% il terzo e -7,3% il quarto) mentre le famiglie più abbienti, appartenenti all’ultimo quinto, hanno contenuto le proprie perdite con un -3,2%.

Le distanze in termini reali tra famiglie più e meno abbienti, appartenenti ai due quinti estremi, spiega l’Istat, si sono ampliate in particolare nell’ultimo triennio; con la ripresa inflazionistica, le famiglie con minori capacità di spesa hanno dovuto infatti scontare un aumento dei prezzi più forte rispetto a quelle più benestanti. Ciò è avvenuto in particolare nel corso del 2022, quando l’inflazione è stata molto alta e trainata da energetici e alimentari, beni essenziali che pesano in misura maggiore sulla spesa delle famiglie con maggiori vincoli di bilancio. Rispetto al 2020, le famiglie più povere hanno avuto a fine 2023 un’inflazione specifica del 22,2%, rispetto al 15,1% delle famiglie più benestanti (+17,4% la media complessiva).

Con il Reddito di cittadinanza uscite dalla povertà un milione di persone L’erogazione del Reddito di cittadinanza “ha permesso di uscire dalla povertà a 404mila famiglie nel 2020, 484mila nel 2021 e 451mila nel 2022. Per quanto riguarda gli individui, l’uscita dalla povertà ha riguardato 876mila persone nel 2020 e oltre un milione nel 2021 e nel 2022. Senza il RdC, spiega l’Istat, “l’incidenza di povertà assoluta familiare nel 2022 sarebbe stata superiore di 3,8 e 3,9 punti percentuali rispettivamente nel Sud e nelle Isole. Tra le famiglie in affitto, l’incidenza di povertà sarebbe stata 5 punti percentuali superiore. Tra le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione, l’incidenza avrebbe raggiunto il 36,2% nel 2022, 13,8 punti percentuali in più.

Tre milioni di giovani in meno

Sconfortante il quadro dell’Istat anche per quanto concerne il quadro anagrafico dell’Italia di oggi, un paese sempre più vecchio. Ci sono infatti oltre tre milioni di giovani in meno in 20 anni: l’Italia registra nel 2023 appena 10,33 milioni di persone tra i 18 e i 34 anni con un calo del 22,9% rispetto al 2022 quando erano 13,39 milioni. Rispetto al picco del 1994, quando rientravano nella fascia i ragazzi del baby boom, il calo è di quasi cinque milioni (-32,3%).

Negli ultimi 30 anni c’è stato un incremento speculare delle persone di 65 anni e più cresciute da poco più di 9 milioni nel 1994 a oltre 14 milioni nel 2023 (+54,4%). Un Paese, quindi, sempre più vecchio e attanagliato dallo spettro della denatalità.

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