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Imprese culturali e creative: l’Italia ha la materia prima ma non sa monetizzarla

L’ufficio statistico Eurostat svela i numeri in soldoni: il Belpaese ha 190mila occupati nel settore contro i 476mila della Germania.

Roma – L’Italia dei beni culturali non sa fare impresa! L’Italia, il Paese delle bellezze artistiche e architettoniche, per questo invidiato dal mondo intero, risulta carente per quanto riguarda le Imprese Culturali e Creative (ICC). Ovvero, in soldoni, abbiamo la materia prima ma non sappiamo monetizzarla. Nel 2022 le ICC sul nostro territorio erano circa 75 mila, dietro Germania, Spagna, Olanda e Francia. Per quanto riguarda gli occupati la situazione non è granché confortante: 190 mila in Italia e, ad esempio, 476 mila in Germania. Lo stesso vale per il valore aggiunto: 8 milioni degli italiani contro il 23 dei tedeschi. Sono solo alcuni dati diffusi dall’Eurostat, l’Ufficio Statistico dell’Unione Europea, che sono sintomatici di come in altri Paesi europei le ICC recitino un ruolo importante più di quanto accada nel Belpaese.

Come si è visto dai dati, la Germania è lo Stato più intraprendente in tutte le performance: numero di occupati, valore aggiunto per imprese, valore aggiunto per lavoratore. L’Italia malgrado sia protagonista nel settore, occupa, tuttavia una posizione di seconda fila. Coma avere in mano una Ferrari e non saperla guidare, questo è il paradosso del nostro Paese! I dati ci dicono che i risultati non sono all’altezza delle nostre potenzialità. C’è da considerare che la peculiarità delle ICC è costituita dal ruolo decisivo del lavoro rispetto al capitale, come succede sovente in altri modelli industriali.

Questo modus operandi determina che il numero di imprese si deve rapportare al numero di abitanti. Secondo questo assunto, l’Italia è composta da 13 ICC ogni 10 mila abitanti. Questo dato confrontato con la Germania evidenzia che in quest’ultimo Paese la popolazione è più numerosa, di conseguenza c’è una crescita della concorrenza e, quindi, più competitività. Un altro aspetto caratteristico del nostro Paese è la composizione delle imprese. In media le ICC sono costituite da 2,5 occupati, tipo… in un sottoscala.

Quasi sempre queste microimprese si avvalgono di una fitta rete di collaboratori freelance, che spesso sono lavoratori precari. Con una struttura siffatta la competizione è orientata verso un volume d’affari più “basso” rispetto ad altre economie. Parlando di cifre il fatturato medio dell’Italia è di 345 mila euro, in Germania 487 mila e in Spagna 468 mila. L’economia definisce il valore aggiunto per addetto come il rapporto tra il valore aggiunto e il numero di addetti di un’impresa.

Esprime il contributo di ciascun addetto all’incremento di valore che l’azienda consegue vendendo sul mercato il bene o il servizio prodotto e può essere considerato come un indicatore di produttività del lavoro. Ora questo valore è basso perché gli occupati sono pochi e si inserisce in un limitato valore generale dell’economia. Il livello di fatturato al di sotto delle possibilità può essere spiegato da un lato dai livelli insufficienti di spesa dei cittadini. Dall’altro, da un settore fortemente condizionato dalla presenza pubblica, situazione che potrebbe abbassare il valore di alcune transazioni.

Con questi chiari di luna, è comprensibile che le imprese possano ridurre gli investimenti ed i costi, soprattutto quello del lavoro dipendente, utilizzando le collaborazioni quando se ne ha bisogno. L’Eurostat offre anche dei consigli su come migliorare. Ad esempio, si potrebbero rendere deducibili gli acquisti da parte degli utenti. Inoltre, un tipo di lavoro riconosciuto dalla legislazione con più controlli sui contratti. Infine, dare più valore al lavoro nelle gare pubbliche. Sono solo tre piccoli passi che potrebbero innescare un processo virtuoso in modo da rendere fruttuoso un panorama artistico e culturale, di cui forse diamo indegni eredi!

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