Il giovane tiktoker l’ha fatta finita on line, vittima secondo il padre di cyberbullismo. Il dramma rivela le trappole della virtualità.
Roma – Il suicidio in diretta. Ormai succede tutto sui social. Si è, solo se si è presenti in questo luogo virtuale, che ha spazzato via con ferocia quello reale. Ed è il luogo prediletto dai più giovani. E lo era anche per Vincent Plicchi, un ragazzo di 23 anni bolognese che su TikTok aveva molti seguaci, circa 300 mila followers. Era diventato una vera star camuffandosi con le vesti di un famoso personaggio dei videogame di guerra, Call of Duty. Era un cosplayer (chi ama indossare i costumi di personaggi dei fumetti e dei film) ed indossava una maschera da teschio sul volto e una spada luminosa attraverso cui metteva in atto le sue performances. Il suo nome d’arte era Inquisitor Ghost. Il 10 ottobre scorso di sera, mentre tantissimi fans seguivano la sua diretta, ha deciso di porre fine alla sua vita. Un dramma in diretta, in tempo reale.
Un modo tragico di spettacolarizzare la morte. I motivi dell’insano gesto sono al vaglio degli inquirenti. Pare che il ragazzo fosse stato vittima di cyberbullismo e accusato di pedofilia. Comprensibile la reazione del padre che ha dichiarato:
“Mio figlio era un creatore molto originale, era un vero artista, ma l’invidia di queste inutili persone malvagie lo ha ucciso, hanno organizzato una storia falsa sul mio amato figlio, così delicato dentro e non poteva sopravvivere per essere così aggressivamente diffamato e l’unico modo che ha trovato per “proteggersi” dal disonore e dimostrare la sua innocenza è stata la sua morte”. Tuttavia, sui social l’immedesimarsi nell’altro, peculiarità dell’essere umano, si affievolisce fino a sparire del tutto.
Non si avvertono gli esiti di ciò che si fa e si pensa di operare in un luogo dove tutto è consentito. Il corto circuito si innesca perché, forse, non ci siamo ancora adattati alle relazioni immateriali dopo secoli di interazioni dirette, fatte di contatti e passaggi temporali molto lunghi. Mentre i confini della virtualità sono incerti e pieni di zone d’ombra. La virtualità, malgrado i tentativi di farci credere il contrario, non è il nostro habitat naturale e annulla i controlli sui processi emotivi. Con molta probabilità Vincent è stato annientato dalla sua fragilità nel reggere la pressione e dall’aver voluto vivere una parte notevole della sua breve esistenza nella quattro mura della sua abitazione in cui aveva creato il suo luogo immateriale, che in quanto tale è innaturale.
Era riuscito a diventare un personaggio, ma a costo della sua vita nel momento in cui è diventato “preda” dei suoi odiatori di circostanza. Essere messo alla gogna dopo il successo è un trauma anche per persone più temprate alle intemperie della vita, figurarsi per un ragazzo di 23 anni. Si tratta di un urto molto forte i cui costi sono altissimi, come ha dimostrato, purtroppo, il suicidio di Vincent. I ragazzi, oggi, si trovano tra l’incudine ed il martello. Formarsi uno spirito critico verso i social e la comunità che circola intorno ad essi è come scalare l’Everest. Così com’è altrettanto complicato desiderare un ritorno alla realtà, perché la vera minaccia infida, invisibile e inquietante è il sentirsi, comunque, inadeguati. E’ questo il muro da abbattere, la “peste” che è diffusa tra molti giovani. La stessa malattia che li porta a rinchiudersi dietro un computer, con cui pensano di dominare il mondo.
Quando si accorgono, a loro spese, del contrario, diventano facili prede dei prepotenti, i cosiddetti “leoni da tastiera”. Quest’ultimi si muovono nell’oscurità, ma appoggiati da una marea di invisibili e passivi, come un fiume che si ingrossa sempre di più. Riusciranno questi sciagurati a ritornare alla realtà? Chissà.