Nel nostro Paese, l’emancipazione sociale della donna e la parità di genere in ambito professionale soffrono ancora di pregiudizi e di limiti culturali. C’è ancora molto da fare. Le belle parole, da sole, sono insufficienti.
Roma – Il lavoro femminile in Italia, sin dagli albori della rivoluzione industriale. è stato sempre presente, ma invisibile. Nel senso che i dati Istat, fino a pochi decenni fa, non prevedevano la disaggregazione per genere. Inoltre è stato sempre considerato informale, tanto che le stesse donne si definivano prima dedite ai lavori domestici e poli lavoratrici. C’è stato un periodo, tra gli anni’40 e ’50 del secolo scorso, che erano considerate, anche nei documenti ufficiali, “Signorine”. Si trattava di lavoratrici spesso non sposate che, per un vuoto normativo, il matrimonio impediva loro di continuare a lavorare.
“Signorine” è il titolo di un podcast a cura di Chora Media, la nuova Podcast Company Italiana. Questa tipologia di contenuti negli ultimi anni ha registrato una crescita di ascoltatori, tanto da raggiunge 11,1 milioni, pari al 36% degli utenti del web tra i 16 ed i 60 anni. In ogni puntata è assicurata la presenza di Fiorella Imprenti, storica del lavoro.
C’è da dire che una sorta di coscienza di classe le lavoratrici l’anno sempre manifestata, già nella seconda metà dell’800. È in questo periodo, ad esempio, che fu fondata la società di mutuo soccorso per creare asili nido per l’accudimento dei figli delle operaie da Laura Solera Mantegazza, nota filantropa e patriota italiana, ricordata per aver appoggiato e raccolto fondi per le guerre d’indipendenza e aver fondato il primo ricovero italiano per lattanti nel 1850.
Fu anche tra i fondatori del Pio Istituto di Maternità nel 1850, e della Fondazione Laura Solera Mantegazza, prima scuola professionale femminile d’Italia nel 1870. Dopo la prima guerra mondiale, le donne si inserirono nel settore pubblico. Molte furono assunte come tranviere, un lavoro allora ben remunerato, che suscitò una difesa da parte della corporativa maschile, puntando sull’assunto che si trattasse di un lavoro pesante e poco adatto alle donne, a causa dei turni. In realtà era un modo per escluderle dai lavori meglio pagati.
Sin da allora, il lavoro, soprattutto quello ben retribuito, assunse una valenza di emancipazione sociale. È con la Costituzione italiana che viene sancita la parità tra uomini e donne. Eppure, soltanto nel 1976 viene nominata una donna alla guida di un Ministero, Tina Anselmi, che in funzione di Ministro del Lavoro, si adoperò per la parità attraverso lo Statuto dei Lavoratori. In Italia è successo spesso che le leggi non hanno trovato valida applicazione. Alla correttezza e al progresso formale, si contrappone un’inerzia di fondo che produce un immobilismo assoluto.
Basti pensare agli impedimenti che si incontrano nel declinare mestieri e professioni, nonché incarichi istituzionali al femminile. Inoltre, la vergognosa prassi attraverso cui le donne, pur svolgendo lavori più qualificati, vengono inquadrate con mansioni più basse e, quindi, meno retribuite. Infine, la maternità viene sentita, in generale, come un impedimento dell’emancipazione femminile. Questo succede, ad esempio, quando si entra nel mondo del lavoro, perché vige ancora il paradigma culturale secondo cui ci si allarma di più se è il maschio a restare disoccupato. Inoltre, la condivisione della maternità è puramente teorica.
La recente legge sui congedi parentali a favore dei padri è un granello di sabbia, ma è già qualcosa. In precedenza, i giorni da dedicare ai figli venivano scalati dalle ferie dei padri. Sulla parità di genere molto è stato fatto, ma molto è ancora da fare. Stride constatare che, dopo 150 anni di storia, la parità, tutto sommato, è solo a parole, oggi come allora!