La malattia dell’opulento occidente, l’obesità, mentre dall’altra parte del mondo si muore di fame, aumenta il suo terribile impatto. Anche a livello sociale. Contraddizione di un sistema globale malato.
Roma – Il fenomeno è diventato talmente pervasivo che gli è stata dedicata una Giornata Mondiale: lo scorso 4 marzo, istituita dall’IFO (Federazione Internazionale per l’Obesità). A dare una spinta notevole per la consapevolezza del fenomeno, ci ha pensato anche il successo del film The Whale di Darren Aronofsky. È la storia di un professore di inglese il cui peso sfiora i 300 kg e che vive negativamente il dramma dell’obesità, tanto che decide di ingozzarsi fino alla morte portando agli estremi il peso fisico e psicologico della malattia.
Il film è molto attuale e può essere uno stimolo – secondo la World Obesity Federation – per politiche di prevenzione dell’obesità e per sensibilizzare l’opinione pubblica sugli effetti deleteri della malattia, anche perché rappresenta l’espressione di un’umanità rappresentata, se non di rado, in maniera negativa dai media.
Tanto che negli USA è stato coniato il termine “grassofobia”. Ovvero una vera e propria una “sistematica emarginazione sociale” delle perone obese che riguarda tutti i contesti sociali: lavoro, scuola, sanità. Questi aspetti potrebbero spiegare anche il fatto che non sia riconosciuta come patologia, ma come vizio, assenza di forza di volontà e autodisciplina. Edoardo Mocini, specialista in Scienze dell’Alimentazione al Policlinico Umberto I di Roma, nonché autore del saggio Fatti i piatti tuoi ha dichiarato: “Al mondo c’è circa un miliardo di persone con questo problema. Stigmatizzarlo in maniera semplicistica è improduttivo perché ci si concentra sulle cause individuali e non riesce a cambiarne la tendenza, né a migliorare la salute dei pazienti“. Bisogna, invece, riconoscerne le tante cause ambientali che sfuggono al controllo dei pazienti e permettere loro di poter usufruire di cure mediche specialistiche multidisciplinari, che vanno dalla dietoterapia alla psicologia fino alla farmacologia.
Un sondaggio promosso da Allurion, azienda per la produzione di palloncini gastrici, eseguito da YouGov, società britannica di ricerche di mercato e analisi dei dati, ha analizzato la percezione degli italiani sull’obesità tramite i social media. Il social che diffonde più informazioni sull’argomento è Instagram, poi Facebook ed, infine, per i più giovani, TikTok. La maggioranza degli italiani ritiene che i social recitino un ruolo importante nella divulgazione e che durante la pandemia sia cresciuta l’interesse verso questa problematica. Gli intervistati hanno evidenziato la pessima rappresentazione dell’obesità attraverso i social. Difatti, TikTok, nel maggio scorso ha dovuto cancellare una challenge cattivissima la “Boiler Cup”, una sfida tra ragazzi per “prendere di mira ragazze grasse a scopi sessuali e umiliarle, denigrarle e deriderle”.
Viene chiesto di dare maggiore visibilità sui social alle persone obese senza essere criminalizzate, perché nessuno decide di essere grasso, ma esistono problematiche pregresse che vanno affrontate. Perché si fa presto a passare dalla derisione alla “grassofobia”, che è diventata un vero e proprio problema sociale. Un invito a riflettere e a non giudicare, perché battute su peso e corpo altrui, considerate innocue, spesso feriscono come lame taglienti. Questa sorta di “devianza linguistica” ha fatto talmente breccia che Zingarelli ha inserito la locuzione fat-shaming (letteralmente “vergogna del grasso”) –ovvero deridere una persona in sovrappeso- come uno dei neologismi per il 2023. Meglio contare fino a 10 quindi prima di parlare…