Dopo tante polemiche sulla sterilità dell’ente intermedio descritto come inutile e costoso, ora ci ripensano tutti. Come sprecare altri soldi pubblici a buon mercato.
Roma – Troppe le competenze in mano alle città metropolitane che non dispongono peraltro di fondi sufficienti. Nonostante si tratti di enti di una certa rilevanza, si trovano in una condizione istituzionale incerta, eppure sostanzialmente ignorata sia dal dibattito pubblico che da quello politico. Da un po’ di tempo però, nonostante il tema continui a essere del tutto al di fuori del discorso pubblico, alcune situazioni hanno iniziato a muoversi, almeno da un punto di vista istituzionale. Infatti le ultime due leggi di bilancio hanno rivisto almeno in parte la disciplina finanziaria riguardante le province.
In Sicilia è già stato presentato il nuovo disegno di legge ed avviato il percorso per la reintroduzione delle Province, con l’elezione diretta di Presidenti e Consigli:
“Con questo testo onoriamo un impegno assunto con i siciliani in campagna elettorale – ha affermato il Presidente della Regione Renato Schifani – per questo sono ottimista su un iter veloce in Ars, attraverso anche un confronto con tutte le forze politiche, rispetto al quale siamo sempre disponibili“.
Nel dettaglio le Province, in Sicilia, saranno sei più le tre Città metropolitane di Palermo, Catania e Messina. Il progetto di riforma individua gli organi di governo e la loro composizione, introducendo la figura del consigliere supplente e stabilendo le quote rosa nelle liste, con almeno un quarto delle candidature riservato alle donne.
Prevede, altresì, la doppia preferenza di genere, come nei Comuni ed introduce il collegio unico per l’elezione del presidente della Città metropolitana e della Provincia, la divisione della circoscrizione elettorale in collegi per l’elezione dei consiglieri provinciali, in modo da dare adeguata rappresentanza a tutti i territori. Se fino ad alcuni anni fa, da un punto di vista istituzionale, le province erano enti amministrativi del tutto simili ai Comuni con un presidente e un consiglio eletti direttamente dai cittadini, attualmente la situazione è decisamente più complessa e a tratti confusa.
Parlare semplicemente di province infatti è, da un punto di vista amministrativo, molto riduttivo, essendo ora queste solo uno dei diversi “enti di area vasta” presenti sul territorio. Oltre alle province, infatti, sono “enti di area vasta” le 14 città metropolitane ma anche i 6 liberi consorzi comunali della Sicilia e i 4 enti di decentramento regionale (Edr) del Friuli-Venezia Giulia. Un assetto questo delineato dalla legge 56/2014 ovvero la cosiddetta legge Delrio, oltre che da alcune leggi di regioni a statuto speciale che, come la normativa nazionale, rispondevano ad un’idea molto diffusa in quella fase politica.
Ovvero che le province fossero enti sostanzialmente da superare. Proprio per questo la legge aveva definito una disciplina che avrebbe dovuto essere transitoria, in attesa della completa abolizione delle province. La riforma costituzionale Renzi-Boschi, infatti, prevedeva che le città metropolitane restassero gli unici enti di area vasta presenti nel paese. Da quel momento la “normativa provvisoria”, seppur con qualche accorgimento, è rimasta attiva per 8 anni.
Un periodo lungo in cui è diventato evidente come l’indebolimento degli enti di area vasta abbia rappresentato una criticità nel sistema istituzionale locale. Riecco, così, le province, che con ben quattro diversi disegni di legge nazionali, a firma Fi, FdI, Lega, Pd, con anche 5 Stelle e Iv che stanno lavorando a dei disegni di legge ad hoc, che nei fatti vogliono fare marcia indietro dopo quasi dieci anni dalla loro morte.
Dunque, passata la sbornia generale e semplificatrice del “meno poltrone per tutti” cavalcata dal M5S e poi accarezzata anche dal Pd a trazione renziana, si è capito nel tempo che dopotutto tra comune e Regione l’esistenza di un ente intermedio è cosa utile. Da poco depositata al Senato anche una memoria della Corte dei Conti favorevole alla riforma inseguita dal governo che punta al ritorno del voto popolare per le Province, dalla quale si evince che il risparmio delle indennità è irrisorio rispetto agli effetti positivi di un riordino delle funzioni.