L’argomento è assai controverso e la politica ne rimane colpevolmente fuori. Gli ultimi eventi però fanno ben sperare in una soluzione veloce per quanto attiene l’autodeterminazione individuale, almeno nei casi in cui l’accanimento terapeutico potrebbe rappresentare una sorta di inutile tortura.
Roma – Lo scorso aprile sono stati assolti in appello Mina Welby e Marco Cappato, rispettivamente copresidente e tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, che si occupa di libertà della ricerca scientifica e della autodeterminazione individuale.
I due erano stati assolti già in primo grado dall’accusa di assistenza al suicidio offerta a Davide Turrini, malato di sclerosi multipla, morto nel 2017 in una clinica svizzera. Mina Welby subito dopo la sentenza aveva cosi commentato: “…E’ un passo avanti. Ora aiutateci a raccogliere le firme per il referendum…”.
Il processo si è svolto perché i due si erano autodenunciati per l’aiuto dato a Turrini, l’uomo che aveva deciso in piena libertà di staccarsi dalle sofferenze della vita.
Senza dubbio la questione dell’eutanasia è un tema molto scomodo da affrontare, soprattutto in un momento storico in cui la massima attenzione è rivolta alla pandemia ed ai tentativi di uscire dalla crisi economica da essa scatenata. E non solo.
Invece proprio adesso potrebbe diventare un argomento saliente, soprattutto per la politica rimasta abilmente distante, perché in quest’anno e mezzo abbiamo avuto molto a che fare con la morte.
La raffigurazione tramandataci dalle tradizioni popolari è la figura di uno scheletro che brandisce una falce, a volte vestito con un saio nero, una tunica o con un mantello nero munito di cappuccio. La questione è molto complessa perché riguarda aspetti etici, morali, giuridici e politici.
Il dibattito è stato sempre incentrato sul limite molto sottile che intercorre tra il diritto alla vita e alla salute sancito dalla Costituzione, come quello per il paziente di rifiutare le cure (art. 32). L’eutanasia, il cui significato letterale vuol dire buona morte, nel dibattito pubblico e scientifico è stata delineata in eutanasia attiva, consensuale e non; eutanasia passiva, consensuale e non, eutanasia indiretta.
Su questa base si sono sviluppate le contrapposizioni sia a livello teorico tra fautori e detrattori, sia a livello pratico citando i casi più noti nazionali, Welby ed Englaro, ed internazionali, l’inglese Charlie Hard ed il protocollo olandese per l’eutanasia infantile.
Affrontando il tema dell’eutanasia come strettamente legato alla vita ci si dimentica che è, allo stesso tempo, molto stretto con quello della morte. Nel dibattito occidentale Thanotos, che nella mitologia greca rappresentava la morte, è completamente assente. Quasi nascosto, allontanato, messo in un angolo, come un tabù.
Un tentativo fallace di esorcizzarla, tanto che nell’immaginario collettivo non c’è posto per essa ma solo per il suo contrapposto, la vita. Quest’ultima, con la sua gemella vitalità, viene esaltata fino al parossismo. A tal punto da aver causato un attaccamento patologico cosi forte da sfiorare la morbosità e l’accanimento terapeutico nei casi estremi.
Se esiste un’educazione alla vita, dovrebbe essercene una alla morte, che ci fornisca gli strumenti più efficaci per effettuare l’ultimo viaggio con consapevolezza.
Il filosofo Arthur Shopenhauer dichiarò in più di un’occasione: “…Non v’è rimedio per la nascita e la morte, tranne godersi lo spettacolo…” e lo scrittore inglese Rick Riordan rincarava la dose a sua insaputa: “…La vita è preziosa solo perché ha una fine. Voi mortali non sapete quanto siete fortunati…”.
Ecco perché la vita va difesa nel rispetto della dignità di ognuno e, soprattutto, senza accanimenti di qualsiasi tipo, se si dissolve il senso di viverla.