Negli ultimi tempi si è diffusa l’idea che sarebbe possibile, per gli alunni, andare a scuola senza avere la spada di Damocle del voto sulla testa. Essere valutati da un numero produce solo stress per i ragazzi.
Roma – Una scuola senza voti richiama alla mente il film “L’attimo fuggente” del 1989, in cui il professor Keating, interpretato da Robin Williams, invitava gli alunni a pensare con la propria testa e a strappare le pagine dei libri, in quanto erano in gioco i loro cuori e le loro anime. Senza dubbio si trattava di un approccio didattico inconsueto per gli anni ’50 del secolo scorso. Ma lo sarebbe anche oggi, dopo oltre 60 anni.
Questo tema sta diventando dirompente sui social e non poteva essere altrimenti, visto che essi sono il luogo privilegiato dei ragazzi. Circolano storie di chi prende eccellenti voti a scuola o all’università, in cui si identificano coloro che non riescono ad arrivare in cima, i cosiddetti “perdenti”. È un sistema che produce due categorie di persone: da un lato i più bravi, applauditi, incensati, celebrati e dall’altro chi arranca.
Senza tenere conto che i primi a scuola sono tali perché hanno la possibilità di investire negli studi tempo e risorse. I loro primati per avere valore devono essere convalidati da un 10 o da un 30 e lode, per essere definiti al top. Solo così raggiungono le prime pagine dei giornali o vengono seguiti sui social. Mentre chi non raggiunge numeri eclatanti, spesso aiuta la famiglia, lavora o segue passioni che sono fuori dagli schemi. Una sorta di “falliti” sempre valutati con un numero che va da 1 a 10.
Il nostro sistema scolastico è come una gara sportiva. Il primo vince e ha un bel voto mentre gli altri seguono a “ruota”. Ed è una gara lunga, che inizia da bambini fino ai 18 anni, se non si proseguono gli studi all’Università. Una gara infinita, scandita dai voti, quando, invece, la scuola, non dovrebbe riguardare vittorie e sconfitte, ma la crescita individuale e collettiva per compiere un viaggio della conoscenza.
Eppure scuole senza voti esistono. Ad esempio, il sistema scolastico finlandese è stato definito “scuola della domanda”, in quanto i premi vanno a chi pone domande, dimostrando capacità di argomentazione e spirito critico e non agli alunni che rispondono come se avessero imparato delle filastrocche. Negli USA, la Saint Ann’s School di Brooklyn Heights, a New York, utilizza, al posto dei tradizionali voti, un sistema di “resoconti narrativi” con cui si commenta il lavoro degli alunni.
Non è una novità dell’ultima ora, ma è un metodo nato con la sua fondazione negli anni ’60. Si tratta di un percorso alternativo e coinvolgente, in cui i discenti partecipano con entusiasmo. È un modo di appassionarsi, stimolando l’intelletto, senza il timore di subire il voto che li costringe ad una competitività, che non dovrebbe essere fondamentale per una scuola. È, infatti, un’istituzione destinata all’educazione e all’istruzione degli allievi. La prima deriva dal latino “educere”, ovvero “trarre fuori” quello che i ragazzi hanno “dentro”. La seconda, dal latino “instructio”, che significa “costruire”.
D’altronde, il termine “scuola” nell’antica Grecia descriveva il “luogo in cui veniva maggiormente speso il tempo libero”, inteso come momento di discussioni filosofiche e scientifiche. In uno Stato democratico, essa, almeno fino ai 18 anni, dovrebbe essere una vera palestra di vita, in cui vengono formati prima i cittadini e poi i lavoratori!