Il concetto si è diffuso a macchia d’olio in maniera capillare, tanto che sembra, secondo gli studiosi di antropologia culturale e sociale, che sia fondante della struttura socio-economica delle popolazioni che vivono nell’area mediterranea.
Roma – Un approccio slow, lento, all’economia e alla società in generale è quello che ci vuole per fermare il morbo del fast che ci sta portando tutti al camposanto e per riprenderci nella fase post-pandemia. La slow economy: un approccio più riflessivo, più calmo, su cosa produrre e perché. Un tentativo di arrestare il declino economico e sociale e per non precipitare nel baratro.
I disastri del modo di produzione capitalistico e del modello di sviluppo sociale che ne è scaturito, considerato quello vincente dagli studiosi dopo la caduta di un trentennio fa del suo avversario storico il comunismo, sono sotto gli occhi di tutti. La consapevolezza che così non si può andare avanti si è diffusa tra gli strati della società civile più sensibile alle tematiche ambientali, colpita dai tanti disastri economici e sociali. Da quando l’opinione pubblica si è persuasa dei disastri compiuti dalla fast economy, economia veloce, il termine slow ha fatto rapida breccia nei suoi cuori facendone crescere la sensibilità per l’argomento, non nell’accezione di stagnazione economica, come a volte si cerca di fare. Come è ormai evidente a tutti le persone di buona volontà tranne che ai politici che prendono le decisioni per noi (che culo), questo modello di sviluppo è alla frutta, ha i giorni contati e rischia di portare nella tomba tutti gli esseri viventi del pianeta.
Numerosi tentativi di salvare il salvabile sono venuti fuori negli ultimi anni da parte di associazioni di vario tipo e dalla mobilitazione dell’opinione pubblica, fortemente preoccupata dell’avvenire dei propri figli. Non poteva mancare l’apporto di insigni studiosi. La fervida immaginazione della cultura napoletana ci è venuta incontro al momento giusto. Pare, si dice, voci di popolo sussurrano per i corridoi e quando il popolo parla: vox populi, vox dei, che un gruppo di ricercatori e studiosi dell’antica e gloriosa Università Federiciana di Napoli abbia stilato un programma per l’avvenire dal seducente ed efficace titolo: CUO’NCH CUO’NCH ECONOMY o CUON’CHCUO’NCHNOMICS. Il nome del programma deriva dalla crasi del termine cuo’nch cuo’nch ed economy. Il primo fa parte dell’armamentario della lingua partenopea, che ancora una volta si dimostra pregna di significati iperbolici e ci viene in soccorso per esplicitare il concetto del programma. Il suo significato tradotto in italiano è “ADAGIO ADAGIO”. Un termine entrato a fare parte delle tradizioni popolari napoletane a pieno titolo e sta a significare che per meglio rapportarsi con la sopravvivenza quotidiana e con la vita in generale bisogna prendersela comoda, andare cuo’nch cuo’nch appunto, adagio adagio. Questo concetto si è diffuso a macchia d’olio in maniera capillare, tanto che sembra, secondo gli studiosi di antropologia culturale e sociale, che sia fondante della struttura socio-economica delle popolazioni che vivono nell’area mediterranea. Ad influire su questa caratteristica anche il clima mite che non invita certo ad affaticarsi, ad industriarsi. A tutto questo background si aggiunge una certa concezione fatalistica della vita e una buona dose di indolenza sociale.
Queste caratteristiche denigrate fino ad oggi, tanto da fare parte del bagaglio di pregiudizi geografici e/o etnici e da essere inserite nell’elenco degli aspetti controproducenti per l’aumento della produzione del Pil, il famigerato prodotto interno lordo che tanti danni sociali, ambientali ed in ultimo anche sanitari per via della pandemia, ha prodotto e che stiamo pagando a caro prezzo, oggi assumono un significato diverso, tanto da poter assurgere a modello! Non ci si rende conto che ancora un passo, un…Pil e precipitiamo tutti nel baratro! I ricercatori napoletani hanno presentato una gran mole di dati sugli effetti devastanti provocati dal totem dello sviluppo a tutti i costi, intendendo con questo: produzione intensiva di cose e merci e utilizzo accelerato delle risorse naturali. I fautori del modello a cui ci hanno costretto ad inchinarci hanno avuto l’ardire di definirlo “di sviluppo”! Ma di che? Dell’idiozia umana, della sua dabbenaggine forse! Una rapida ricerca ci viene in soccorso suggerendoci che il termine sviluppo significa accrescimento progressivo, solo che è stato biecamente inteso come accrescimento di cose innaturali e non nella sua autentica accezione di compiutezza.
La Cuo’nchcuo’nchnomics si basa su un ritorno alle tradizioni della autentica cultura contadina, di chi ama la terra e sul rispetto etimologico del termine economia, dal greco oikos, casa e nomos, norma o legge. Quindi, letteralmente “gestione della casa”. Il principio base, infatti, della scienza economica è il “soddisfacimento dei membri della casa” e per estensione “della collettività”, attraverso l’uso dei beni necessari alla soddisfazione dei bisogni non liberamente reperibili. Eppure, ci hanno “imposto di credere” che l’economia fosse “la scienza della “massimizzazione degli utili” e/o della “minimizzazione dei costi”. Invece, può essere definita “l’arte della brava massaia” come erano le nostre nonne e com’era doveroso nella cultura contadina. Ovvero: gestire al meglio possibile le risorse della “domus”, la casa, in modo che tutti possano condurre uno stile di vita conforme ai bisogni fornitici da madre natura, senza prevaricazione di quelli individuali su quelli della collettività. Avanti tutta, dunque, con la “cuo’nchcuo’nchnomics!” . Scusatemi se è poco.