Altro che assistenzialismo. E’ superato anche questo considerata la portata della crisi ma non si può dare sempre ragione agli industriali. In pericolo ci sono milioni di posti di lavoro e ciò che non ha distrutto il Covid potrebbe spazzarlo via la politica dissennata di questi giorni.
L’illusione che il celebre motto della sinistra radicale, “lavorare meno, lavorare tutti”, potesse diventare realtà è durata poco. La paventata ipotesi che si potesse far ripartire il settore industriale mettendo al centro il lavoro non è piaciuta a Confindustria. La rimodulazione dell’orario lavorativo, ipotizzata e poi smentita dal ministro del lavoro Catalfo, ha acceso gli animi degli industriali italiani che hanno colto l’occasione per alzare la voce contro l’esecutivo. “…Mi sembra un pretesto per voler dire alle imprese “litighiamo” – ha commentato Maurizio Stirpe, vice presidente di Confindustria – ma noi non abbasseremo la testa. Vogliamo rispetto per le imprese…” Secondo Stirpe dunque queste proposte sono ispirate a vecchie ideologie: “… Basate più sul conflitto che sul dialogo – aggiunge il vice di viale dell’Astronomia – si parla di una nuova stagione dei diritti e non si tiene contro dei doveri…”.
A fare da eco alle lamentele di Confindustria si è subito aggiunta la ministra Bellanova:
“…Non è con l’assistenzialismo che riparte il Paese – aggiunge l’ex sindacalista che ha ritirato le annunciate dimissioni – noi dobbiamo investire nel sistema produttivo e dare alle persone la possibilità di vivere in maniera dignitosa… Insieme a questo, dobbiamo assumere, con chiarezza, l’idea dell’Italia che abbiamo in testa. Dobbiamo capire come sostenere le filiere d’eccellenza che ci permettono di andare in giro per il mondo, esportando i nostri prodotti e creando ricchezza e solidi posti di lavoro…”.
La realtà dei fatti però mostra uno scenario differente. In primo luogo lo Stato si è fatto carico dei circa 27 mila lavoratori finiti in cassa integrazione a causa del Covid-19, sollevando gli industriali italiani da ogni tipo d’onere. Secondariamente, e anche ammesso che il periodo di sussidio venga prorogato di altri 5 mesi, senza una concreta rimodulazione del lavoro, l’Italia dovrà fare i conti con una disoccupazione galoppante che toccherà quota 13%. Come ha sottolineato BanckItalia:
“… Secondo le nostre valutazioni basate sulle informazioni disponibili – argomentano dall’istituto centrale – la produzione industriale sarebbe scesa del 15% in marzo e del 6% nel primo trimestre…l’incertezza circa la durata dell’epidemia rende estremamente difficile la quantificazione delle sue conseguenze economiche. Ma tutti gli scenari indicano ripercussioni molto forti che si estenderanno oltre il breve periodo. Questa incertezza potrebbe pesare in maniera concreta sugli investimenti e sui consumi. I tempi del recupero dipenderanno in primo luogo dall’evoluzione del contagio, ma un ruolo essenziale l’avrà anche l’efficacia delle politiche di sostegno…È difendibile l’opinione espressa nel Def secondo cui l’economia avrà bisogno di un adeguato periodo di sostegno e di bilancio, durante il quale politiche restrittive sarebbero controproducenti…”.
Come possono aumentare i consumi se allo stesso tempo non si provvede ad arginare il fenomeno della disoccupazione? La rimodulazione, inoltre, sarebbe importante anche sotto il profilo sociale. Infatti scardinando il vincolo delle 40 ore lavorative settimanali si potrebbe incentivare la pratica del “work-life balance”, ovvero un sano equilibrio tra lavoro e vita privata, riducendo così anche l’esoso impegno statale per i bonus baby-sitting. L’esigenza del momento costringe il governo e le istituzioni a vagliare nuove possibilità, tra cui anche questa. Riducendo il monte ore lavorativo si potrebbero aumentare le assunzioni, con la chiara conseguenza che, a fronte di una disoccupazione più contenuta, il potere d’acquisto degli italiani non solo non crollerebbe ma addirittura aumenterebbe nel medio e lungo termine. Anche lo stesso ministro Gualtieri sin è espresso in tal senso:“…Forme contrattuali adeguate alle nuove forme del lavoro…”. Un precedente simile fu concepito in Olanda e in Germania nel 2018. Nel primo caso fu concessa per molte categorie la settimana lavorativa di 4 giorni, e nel secondo, era stato fissato il tetto delle 28 ore per i metalmeccanici. In ambedue i casi non venne toccato in alcun modo il salario. L’Italia politica si trova davanti a una scelta molto chiara: favorire l’occupazione e sopportare nel breve periodo una contrattura economica che, successivamente, favorirebbe l’espansione del potere d’acquisto dei cittadini. Oppure assecondare Confindustria, salvando nel brevissimo periodo la produttività nostrana ma ponendo una gigantesca incognita sul prossimo futuro. La scelta non è solo economica, soprattutto politica. Che farà ora il governo?