CHI PAGA I KILLER LIBICI? NEI LAGER TORTURE E STUPRI DI MASSA.

Arrivano in Sicilia con i segni delle scosse elettriche, cicatrici da tagli di coltello e bruciature di oggetti incandescenti. Sono i migranti che fuggono dallo sterminio libico a cui l’Italia riconosce cospicui indennizzi. L’attuale governo continua sulla linea politica di Marco Minniti e del suo famigerato Memorandum Italia-Libia. Giusto qualche correzione per non farla sfacciata…

“…Sono stato in Libia 3 anni, due li ho passati in una prigione a Bani Walid. C’è una grande buca nel terreno, da cui non si può uscire: è l’ingresso al piano sotterraneo, dove mettono i prigionieri, legati a due a due al polso per tutto il tempo. Qualunque cosa la devi fare insieme al tuo compagno, incluso andare in bagno. Lì aspetti che ti picchino e torturino. Vedi questa cicatrice vicino al gomito? Me l’hanno fatta con il coltello. Rimani lì dentro a meno che ti vendano o che qualcuno non paghi per la tua libertà. Ci sono ancora tante persone in quel buco, adesso…”.

A vivere questa drammatica esperienza è un ragazzo somalo di soli 17 anni. Ne aveva meno di 15 quando ha deciso di fare il “grande viaggio” verso l’Italia ma in Libia è stato sbattuto in galera, sequestrato e torturato. Le violenze viste e subite se le porterà dentro per tutta la vita. Il 17enne si trova adesso in una struttura di Ragusa, un’ex masseria adibita a centro di accoglienza, insieme ad altri 101 migranti giunti a Pozzallo a bordo di un gommone il 12 aprile scorso.
La sua triste vicenda storia è stata trascritta e raccontata dai camici bianchi del MEDU (medici per i Diritti Umani), organizzazione che presta aiuto sanitario ai migranti sbarcati sulle coste siciliane. Quello del minorenne somalo è un racconto comune tra i poveri disgraziati che raggiungono le coste italiane dopo essere passati per la Libia. Dal 2014 al febbraio 2020, secondo i dati forniti da MEDU, sono sbarcati in Italia 660 mila migranti. Circa il 90% di loro dai Paesi d’origine dell’Africa occidentale, del Corno d’Africa ma anche da Siria e Bangladesh è transitato per la Libia.

 

I racconti dei migranti sono diventati gli stessi da quando, nel 2017, il ministro Marco Minniti firmò il “Memorandum Italia-Libia” per contenere gli sbarchi. Una misura fortemente condannata dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani ma prorogata sino al 2 febbraio di quest’anno con il governo Conte, che ha assicurato di aver chiesto una sostanziale riforma delle modalità di trattamento dei migranti. Nessuno, però, ha ancora notato i cambiamenti promessi piuttosto blandi palliativi e aggiustatine, altro che una vera riforma. Quanto realmente abbia sborsato l’Italia in favore dei libici per sovvenzionare abusi, torture e lavoro coatto, è ancora un mistero. Ovviamente non il solo.
Da circa un anno la situazione nel torturato Paese del Maghreb è peggiorata con l’arrivo della guerra dunque alle torture si è aggiunto il reclutamento dei prigionieri. Un reclutamento coatto, tanto per intenderci:

“… Nell’ultimo anno – racconta Samuele Cavallone, coordinatore del team MEDU in Sicilia – la situazione è peggiorata. Accanto ai soliti racconti dei migranti detenuti illegalmente, sequestrati, torturati a fini estorsivi, si è aggiunto lo sfondo della guerra, dunque il problema degli scontri a fuoco in cui i migranti vengono coinvolti e spediti spesso a combattere in prima linea o, comunque, trascinati a forza dentro il conflitto armato. Da quando abbiamo finanziato la marina libica, sono aumentate le intercettazioni della Guardia costiera, che noi leggiamo come una diminuzione degli sbarchi ma che in realtà si traducono in una vera a propria tragedia. Le persone che sono arrivate negli ultimi mesi ci raccontano che hanno provato a fare la traversata più volte perché presi e riportati indietro in queste prigioni, solo sulla carta formali ma che in realtà sono fuori dal controllo del governo di unità nazionale e gestite da quella che loro chiamano la mafia, cioè dalle varie milizie e dai gruppi criminali che dettano legge in quel martoriato territorio. Le testimonianze riportano, purtroppo, che anche la presenza delle organizzazioni umanitarie, sia agenzie delle Nazioni Unite o altre ONG, poco possono fare rispetto alle violazioni dei diritti umani che avvengono dentro questi centri…”.

MEDU parla in maniera approfondita delle sevizie nel suo ultimo rapporto “La fabbrica della tortura” pubblicato il 17 marzo scorso. Alcuni numeri in questo caso sono fondamentali per comprendere l’entità del dramma:

“…Secondo i dati raccolti da Medici per i Diritti Umani, nel periodo che va dal 2014 al 2020, l’85% dei migranti e rifugiati giunti dalla Libia ha subito in quel Paese torture e trattamenti inumani e degradanti e nello specifico il 79% è stato detenuto/sequestrato in luoghi sovraffollati e in pessime condizioni igienico sanitarie; il 75% ha subito costanti privazioni di cibo, acqua e cure mediche; il 65% gravi e ripetute percosse. Inoltre, un numero inferiore, ma comunque rilevante, di persone ha subito stupri e oltraggi sessuali, ustioni provocate con gli strumenti più disparati, falaka (percosse alle piante dei piedi), scariche elettriche e torture da sospensione e posizioni stressanti (ammanettamento, posizione in piedi per un tempo prolungato, sospensione a testa in giù)…”.

Nei lager libici questa tendenza, secondo il rapporto dell’organizzazione umanitaria, è rimasta invariata o addirittura si è aggravata, nel corso degli ultimi tre anni, dopo la sigla del Memorandum. Scappare da quell’inferno e tutt’altro che semplice: a volte l’occasione buona si presenta quando i prigionieri vengono portati al lavoro ma per alcuni che riescono a fuggire sono tanti quelli che cadono sotto i colpi di fucile sparati dai carcerieri. Nella maggioranza dei casi sono i familiari dei migranti a pagare il riscatto ma capita anche che siano liberati dai trafficanti di esseri umani che poi chiedono loro i soldi, e tanti, per farli sbarcare di frodo in Italia.

Gli operatori delle organizzazioni umanitarie che soccorrono i migranti non si abitueranno mai a queste storie sanguinose:

“… Spero che in Italia mi trattino come un animale, perché qui gli animali vengono trattati meglio degli esseri umani in Libia. Questa è una frase di un sopravvissuto che mi porterò nel cuore finché campo – conclude Samuele Cavallone – mi è stata riferita da un ragazzo sudanese, ospite dell’hotspot di Pozzallo, che ha lasciato il suo Paese a causa della guerra ed è stato prigioniero nelle carceri libiche per due anni. Le torture in quell’inferno erano all’ordine del giorno, ci ha parlato di scosse elettriche, pugni e calci. La notte era costretto a lavorare per scaricare droga e armi sotto costante minaccia di morte. Ci ha detto che quando è stato salvato da Open Arms, per la prima volta si è sentito trattare come un essere umano…”.

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