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Biennale di architettura, ritorno all’antico

Lo scorso 20 maggio, nella suggestiva atmosfera di Venezia si è tenuta la consueta Biennale di architettura. Un’edizione particolare, immersa in un futuro fatto di legno, fango o terra cruda, a cura di Lesley Lokko, artista scozzese di estrazione ghanese. Il tema di quest’anno era l’Africa e la sua diaspora.

Roma – Lo spazio espositivo è stato occupato da piccoli progetti – al bando archistar e megalomanie -privi degli “arnesi classici” dell’architettura: modellini, disegni e altro. Il cambiamento è stato estremo, frutto dell’idea iniziale di esporre più lavori di riflessione sull’abitare che impegni di costruire. Quest’aspetto ha suscitato le lamentale dei “puristi”, che hanno evidenziato la quasi totale assenza di architettura.

Alla figura dell’architetto, Lokko ha optato per quella dei “practitioner”. Si tratta di attivisti, narratori, esploratori di materiali, visionari. Il loro intento non è costruire, ma ridisegnare gli spazi esistenti, aprirsi alle comunità del territorio, per trasformarli in luoghi accessibili e aperti. In questo caso si aprirebbe un confronto dialettico con la comunità tenendo conto dei suoi bisogni, spesso sottomessi alla costruzione e allo sfruttamento. Per questi motivi l’Africa, con la sua storia di occupazione e depauperamento delle risorse da parte dei Stati del civile (?) Occidente è emblematica. Oggi si trova, da un lato, in una fase di decolonizzazione e dall’altro dal dover coesistere con la massiccia presenza economica cinese.

Lesley Lokko

Per questi motivi il MASS Design Group ha suggerito una nuova figura, l’“afritect”, crasi tra african e architect. Si tratta di una persona lontana dal tradizionale ruolo dell’architetto, considerato, a torto, l’unico ideatore del processo di creazione. Questa visione viene considerata non più adatta alle esigenze odierne e al nuovo modo di pensare orientato alla comunità territoriale. Per i giovani creativi africani, il ruolo del consueto architetto è un ostacolo al raggiungimento del loro potenziale, teso verso il concetto di “comunità”, anche in questo settore. Si intuisce che con questi valori di riferimento, i requisiti finanziari da soli non sono sufficienti al mutamento, se non accompagnati da progetti sociali.

Per la cronaca, il MASS Design Group è stato fondato sulla consapevolezza che l’influenza dell’architettura va oltre i singoli edifici. MASS (Model of Architecture Serving Society, tradotto in Modello di Architettura al Servizio della Società) ha come fondamento l’idea che l’architettura abbia un ruolo fondamentale da svolgere nel supportare le comunità a confrontarsi con la storia, plasmare nuove narrazioni, guarire collettivamente e proiettare nuove possibilità per il futuro

Alcuni rappresentanti del MASS Design Group.

Il team è composto da oltre 200 architetti, paesaggisti, ingegneri, costruttori, designer di mobili, produttori, scrittori, registi e ricercatori che rappresentano 20 Paesi in tutto il mondo. Crede nell’ampliamento dell’accesso al design che sia propositivo, curativo e pieno di speranza. È chiaro che con le sole buone intenzioni non si va da nessuna parte, se non sono suffragate da azioni concrete che rispettano l’idea di partenza. D’altronde “di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno”, come scrisse Karl Marx. Comunque un’idea globale, collettiva, territoriale di ogni agire sociale dovrebbe essere la fonte di ogni Stato democratico.

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