Istituti di credito con i forzieri pieni grazie all’aumento del costo del denaro. Mentre lo Stato rimane a bocca asciutta.
A fine anno c’è chi brinderà a Champagne in flut di cristallo e chi con acqua minerale in bicchieri di plastica. Da una parte i banchieri, a cui generalmente la vita sorride, ma quest’anno ancora di più, dall’altra i risparmiatori con mutuo casa a tasso variabile, da mesi strangolati da rate-cannibali cresciute al punto da sbranare gran parte del reddito disponibile.
E’ la roulette dei tassi d’interesse. Negli ultimi mesi, e per dieci volte di seguito, la Banca centrale europea ha usato la leva monetaria come un cannone puntato ad alzo zero contro l’inflazione, ritoccando al rialzo il costo del denaro. Operazione che automaticamente ha fatto salire anche i tassi che le banche fanno pagare sui prestiti a tasso variabile e sui finanziamenti di nuova erogazione. Se ne sono accorti dolorosamente le tante famiglie italiane che hanno in essere un mutuo a tasso variabile, le cui rate sono giunte a mangiarsi fino al 60% del reddito disponibile.
Al contrario le banche si avviano a superare quota 40 miliardi di euro di utili nell’anno in corso, un risultato che sarebbe superiore di ben 17,2 miliardi (+70%) rispetto ai 25,4 miliardi di utili del 2022 e quasi il triplo se confrontati con il quinquennio precedente. Si dirà: se aumentano i tassi sui prestiti aumenteranno anche gli interessi sui depositi. Vero fino ad un certo punto. Perché quanto le banche sono leste ad aggiornare i tassi sui prestiti, tanto appaiono elefantiache nel trasferimento dei benefici del rialzo alla clientela, in particolare quelle italiane e spagnole, che a tal proposito si sono meritate un rimbrotto della Bce.
Si dirà ancora: e la tassa sugli extraprofitti? Il governo aveva imboccato la giusta direzione pretendendo un contributo da chi (le banche) si stava giovando di utili frutto di circostanze esterne che nulla hanno a che fare con la buona gestione delle banche o con la loro normale attività. Peccato che la tassa sia stata rapidamente smantellata e infine di fatto cancellata.
Alla fine dell’anno lo Stato non incasserà nulla, perché le banche hanno deciso di avvalersi dell’opzione prevista nell’ultima versione della legge – che di fatto la depotenzia – decidendo di non versare nulla casse pubbliche e preferendo l’accantonamento della stessa cifra a riserva non distribuibile, per altro anticipando quel rafforzamento patrimoniale che, in prospettiva, alla luce del probabile deteriorarsi del credito, potrebbe essere suggerito o imposto dalle autorità di supervisione e vigilanza.