La legge contro i caporali si è dimostrata inefficace ed il fenomeno riguarda tutto il Bel Paese. Lo sfruttamento dei migranti è in mano alla criminalità che controlla le campagne tramite i propri affiliati al servizio degli imprenditori agricoli conniventi. O di quelli che sono costretti a rivolgersi a chi vende la manodopera a prezzi stracciati. Sono i nuovi schiavi che sgobbano per un tozzo di pane.
Roma – L’immigrazione è uno dei fenomeni sociali più importanti delle società contemporanee. Più o meno l’insediamento di persone provenienti dall’estero si è manifestato in ogni epoca storica ma forse mai con gli esodi biblici degli ultimi anni. E’ quasi sempre stato guardato con poca simpatia nel migliore dei casi, se non con ostilità nel peggiore. Eppure quando c’è da sfruttarlo siamo i primi a farlo ed i più efficienti.
Nell’Agro Pontino – nota zona storico-geografica del Lazio – succede che molta manodopera di origine indiana, soprattutto Sikh, particolarmente capace nei lavori agricoli e nell’accudimento del bestiame, lavori 12-13 ore al giorno senza sosta. Zero giorni di riposo settimanale, zero ferie.
La paga si aggirerebbe tra i 100 ed i 150 euro mensili, meno di 50 centesimi all’ora. Il salario minimo legale dovrebbe essere di circa 850 euro netti al mese che, per 169 ore mensili, corrispondono a 5,03 euro netti l’ora. I lavoratori Sikh, e non solo, vivono in condizioni disumane e sono trattati come schiavi.
Questa zona è nota anche per la produzione di mozzarella venduta a 15 Euro al kg. La mafia dell’agricoltura ne ricava enormi profitti, sfruttando il duro lavoro di questi poveri cristi.
Nel 2018 il rapporto speciale dell’ONU sulle forme di schiavitù contemporanee ha stimato che in Italia più di 400mila lavoratori del settore agricolo erano a rischio sfruttamento e quasi 100mila vivevano in condizioni inumane. Oggi i numeri sono nettamente aumentati.
La grave situazione è diventata talmente visibile che persino il Parlamento se n’è accorto, approvando una Legge anti-caporalato nel 2016 che peraltro non ha sortito gli effetti sperati. Il fenomeno persiste e si è aggravato anche per mancanza di controlli e di personale.
Ovviamente questo problema non è localizzato esclusivamente nell’Agro Pontino ma si è diffuso anche in altre aree del Paese. Nelle zone rurali del Tavoliere delle Puglie, del Saluzzo in Piemonte, del Metaponto in Basilicata ma anche in Calabria, nell’Oltrepò pavese e laddove si sono sviluppate pratiche di agricoltura intensiva con utilizzo di manodopera migrante e precaria.
Un gruppo di ricercatori, autori dello studio “Braccia rubate dall’agricoltura“, ne ha analizzato caratteristiche e procedure. Lo scopo non è stato solo di denunciare il sistema di sfruttamento del lavoro agricolo ma rendere palesi alcuni fattori. Fra questi, la condizione di vulnerabilità giuridica dei migranti, la segregazione abitativa dei braccianti agricoli in ghetti di fortuna e l’organizzazione del lavoro attraverso il caporalato, malessere atavico della società italiana.
Questi aspetti non sono legati alla congiuntura del momento, piuttosto costituiscono un dato strutturale molto forte, tanto da rappresentarne un modus operandi. Il periodo esaminato va dal 2011, con l’approdo in Italia dei richiedenti asilo provenienti dalle primavere arabe, fino al 2020 con l’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia.
Lo sfruttamento sul lavoro è la risposta in agricoltura alla richiesta di manodopera in eccesso e a basso costo. Questo vuoto viene riempito dai lavoratori migranti che si aggiungono a quella in essere.
L’organizzazione dell’offerta di lavoro dipende dall‘intermediazione dei caporali in accordo con gli agricoltori esercitando, in tal modo, il monopolio, lo sfruttamento e la violazione dei diritti umani. Condizioni di lavoro penalizzanti, paghe da fame, alta frequenza di infortuni sul lavoro occultati dalle aziende completano un quadro agghiacciante. Per le donne i trattamenti sono ancora peggiori: spesso sono vittime di abusi sessuali e minacce.
L’indigenza è acuita dai debiti sostenuti per giungere in Italia e dal bisogno di avere un contratto di lavoro per rinnovare il permesso di soggiorno. Un po’ come il cane che si morde la coda. Quando poi succede, come è capitato nel 2016 a Latina, che 4mila braccianti agricoli indiani scioperarono, il sistema padronale non fece una grinza.
I proprietari terrieri collusi allontanarono i ribelli e li sostituìrono nella filiera con altri lavoratori di nazionalità diverse, tanto è numeroso l’esercito di disperati pronti a tutto. Vivere per molto tempo in questa situazione è come aggiungere acqua calda su un corpo già arso.
L’isolamento sociale causa il degrado della salute psicofisica e patologie che non possono essere curate. Senza una dimora stabile non è possibile accedere ai servizi di base come l’iscrizione anagrafica e l’assistenza sanitaria.
Per cercare una soluzione, è indispensabile l’attuazione di politiche attive riferite sia all’immigrazione sia all’accoglienza sul territorio dei lavoratori migranti stagionali. Così come è urgente una profonda riflessione su come mutare il sistema agroalimentare intensivo attuale. Altrimenti di poveri cristi come questi ce ne saranno sempre di più.