Generazione 1.000 euro, atto secondo: vent’anni dopo, nulla è cambiato

Tra lavori precari, salari da fame e contratti non rinnovati, l’Italia continua a ignorare la crisi del lavoro giovanile.

Generazione 1000 euro. Era il titolo di un brillante pamphlet scritto da Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa nel 2006, ispirato da un’inchiesta apparsa sul quotidiano spagnolo El Paìs dal titolo “La Generación de los mil euros”. Nel 2009 ne fu tratto un film dall’omonimo titolo, per la regia di Massimo Venier. Narra le vicende che si sviluppano nella giungla metropolitana di Milano, dove gli affitti sono insostenibili e i giovani laureati condividono piccoli appartamenti in una sorta di eterna adolescenza.

Il ventisettenne Claudio, venuto in città dalla provincia emiliana, cerca disperatamente di stare a galla nell’ambiente iper competitivo della multinazionale in cui ha trovato lavoro (precario, “a progetto”) come junior account nel settore marketing. Con lui abitano Rossella, che si arrabatta come babysitter e hostess nelle fiere, il timido Alessio, che ha rinunciato a una possibile carriera di giornalista per un “posto fisso” alle Poste, e Matteo, ricco e palestrato, che non arriverebbe a fine mese senza l’aiuto della famiglia.

generazione 1000 euro
Nel film diretto nel 2009 da Massimo Venier la vita di giovani laureati nella giungla urbana di Milano, tra affitti insostenibili, contratti precari e sogni rimandati.

Da allora non è cambiato nulla se, secondo l’Ufficio Economia della CGIL (il maggior sindacato italiano), almeno 6,2 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato hanno percepito una retribuzione lorda annua inferiore ai 15mila euro, pari a quasi 1000 euro netti al mese. Queste cifre sono scaturite elaborando i dati Inps del 2023 e hanno riguardato il 35,7% della forza lavoro. Poi ci sono i lavoratori con stipendi di 25mila euro lordi all’anno, ossia il 62,7% del totale. E’ il risultato di una politica economica dimostratasi, nei fatti, fallace, basata su contratti a termine e/o part time, che producono salari lordi annui, nell’ordine di 10,3mila e 11,8mila euro.

Qualunque persona comune, senza essere guru dell’economia, si rende conto sulla propria pelle che con queste cifre si sopravvive poco, soprattutto se si sommano le due situazioni. In quel caso il salario minimo è di 7,1mila euro, in pratica il costo di un… funerale! Cosa ci si può aspettare con un salario medio cresciuto sì del 3,5%, ma eroso dall’inflazione al 5,9%? Inoltre, spesso, il part time non è una scelta libera del lavoratore, ma quella imposta dalla situazione, involontaria, che nel Belpaese, nel 2023, era del 54,8% il più alto dell’Eurozona e il secondo in tutta l’Unione europea. Inoltre, il cosiddetto “lavoro povero” è determinato anche da mansioni di basso livello che, comunque, sono richieste dal mercato e i lavori a termine non rinnovati, di cui l’83,5% di durata inferiore all’anno e il 51% di 3 mesi.

Oltre il 62% dei lavoratori guadagna meno di 25mila euro lordi all’anno, spesso con contratti a termine o part time: condannati al precariato.

Un altro aspetto negativo emerso è che esistono 2,4 milioni di lavoratori con una paga oraria inferiore a 9,5 euro lordi. Secondo la CGIL anche il mancato rinnovo dei contratti ha inciso sui bassi salari. Nel 2023 i lavoratori in attesa del rinnovo contrattuale ammontavano a 6,5 milioni, mentre l’Istat ha calcolato in 32,2 mesi il tempo di attesa da un contratto all’altro. Il fenomeno in Italia supera la media europea che è dell’8,3%, mentre nel Belpaese del 9,9%.

L’aspetto più deplorevole, oltre ai poveri cristi con retribuzioni da… fame, è l’inerzia e l’inadeguatezza delle istituzioni politiche deputate alla soluzione. Da “Generazione 1000 euro” sono trascorsi quasi 20 anni è la situazione è, vieppiù, peggiorata, in cui c’è stata solo una sovrabbondanza di chiacchiere. Ma come recita il saggio contadino, “Le chiacchiere non riempiono la pancia”. Se il paziente non guarisce, il medico coscienzioso cambia terapia, o no?

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