Venne arrestato nel 2016 quando era il secondo latitante più ricercato dopo Messina Denaro. L’eurodeputato Giuseppe Antoci: “Un boss al 41 bis deve essere curato in carcere. Fuori può ancora dare ordini”.
Bologna – Ernesto Fazzalari, il boss della ‘ndrangheta arrestato nel giugno 2016 in provincia di Reggio Calabria, è stato scarcerato e posto agli arresti domiciliari. Al momento dell’arresto Fazzalari era considerato uno dei latitanti più ricercati, subito dopo Matteo Messina Denaro. La decisione di concedergli i domiciliari è stata presa dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna, a seguito dell’accoglimento da parte della Cassazione dei ricorsi presentati dal suo avvocato, Antonino Napoli. La Cassazione ha annullato tre precedenti rigetti in merito alla richiesta di differimento della pena e concessione degli arresti domiciliari, dopo che il boss era stato trasferito al centro diagnostico e terapeutico del carcere di Parma a causa di una malattia incurabile.
Fazzalari era stato condannato all’ergastolo nel processo Taurus, che ha trattato numerosi crimini legati alla “Faida di Taurianova” degli anni Ottanta e Novanta, tra cui il noto “Venerdì Nero”. Tuttavia, la sua pena era stata successivamente ridotta a 30 anni dalla Corte d’Assise di Appello di Reggio Calabria, su richiesta della difesa, in seguito alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) nel caso Scoppola v. Italia. Fazzalari era stato arrestato dopo oltre venti anni di latitanza.
Sulla scarcerazione del boss è intervenuto l’eurodeputato Giuseppe Antoci, Presidente della Commissione Politica DMED del Parlamento Europeo, membro della Commissione Giustizia a Bruxelles e vittima di un agguato mafioso nel 2016 salvato, dopo un violento conflitto a fuoco, dagli uomini di scorta della Polizia di Stato.
“Nel rispetto rigoroso della malattia di Fazzalari e del suo diritto alle cure ritengo tale decisione un segnale negativo. Un sistema carcerario che manda a casa un boss che è al 41 bis per curarsi è un sistema del tutto inadeguato e fallimentare, che consente inammissibili scorciatoie rispetto alle esigenze di sicurezza volte ad evitare che il mafioso dia ordini ai suoi sodali“
“D’altronde, come si può immaginare che il boss ai domiciliari perché malato non faccia frequenti visite mediche in ospedale – sostiene Antoci -, con enorme dispendio di uomini e mezzi per garantire il regime di sicurezza cui è sottoposto? A quel punto il contatto con l’esterno diventa molto probabile“.
E ancora: “È invece nelle strutture carcerarie che si devono fornire le cure adeguate, nel pieno rispetto del diritto alla salute del detenuto; come è accaduto per Matteo Messina Denaro. Un boss mafioso che va ai domiciliari per curarsi torna ad essere pienamente operativo: si vuole forse lanciare un messaggio di indulgenza alle organizzazioni mafiose?”
“Il tema non è quello di uno Stato che si vendica ma di uno Stato che abbia la capacità di attuare il giusto bilanciamento fra la sicurezza pubblica e il giusto diritto alle cure che, nella fattispecie e come già fatto per capi mafia come Matteo Messina Denaro ed altri, poteva essere salvaguardato. Comprendo che è un tema scivoloso – conclude Antoci – ma mi sento di rappresentare la preoccupazione di tanti cittadini che, se si dovesse cominciare a seguire questa scia, potrebbero veder tornare a casa, nei propri territori, una sfilza di componenti di famiglie mafiose. Su questo penso che vada posto un campanello di allarme”.