La sera del 16 aprile 1952 l’ingegnere Erio Codecá, funzionario della FIAT, veniva freddato da un colpo di pistola. La trama è un ginepraio di interessi, politica e servizi segreti. È la guerra fredda in casa nostra, la guerra fredda all’ombra della Mole.
Torino – È 16 aprile 1952, intorno alle 21.30 il botto di uno sparo echeggia tra le buie colline torinesi. Quella sera le alture del quartiere Borgo Po, quelle che si tuffano temerarie a strapiombo sulla città sabauda, sono nella più completa oscurità. Torino porta ancora le ferite dei bombardamenti subiti pochi anni prima e capita, di tanto in tanto, che alcune vie rimangano al buio. Quella sera un tragico destino compie in via Villa della Regina, arteria alto borghese dietro la chiesa della Gran Madre di Dio. Dal lato opposto, rispetto ad una villetta dalle finestre illuminate, si trova parcheggiata una FIAT 1100E e accanto ad essa giace il cadavere di un elegante uomo di mezz’età. Il sangue inzuppa il selciato tutt’intorno alla vittima, che presenta un vistoso buco nella nuca. La strada buia e solitaria man mano si fa più gremita di curiosi e polizia. La vittima si chiama Erio Codecá, la persona più influente in FIAT dopo gli Agnelli e il direttore Vittorio Giuseppe Valletta. Quell’uomo è davvero un pezzo grosso dell’azienda automobilistica e se ora si trova steso per terra, davanti casa, in un lago di sangue, ci deve essere un motivo.
L’ingegnere
Il corpo livido e disteso sul gelido tavolo d’acciaio dell’obitorio non è quello di un uomo qualunque. Codecá, classe 1901, una vita dedicata alla FIAT, la nuova monarchia nata dopo quella sabauda, la nuova monarchia industriale italiana, si laurea a Grenoble nel 1927. Poi viene assunto in FIAT e trasferito nella succursale rumena per farsi le ossa. A Bucarest entra in contatto con l’alta borghesia e i vertici politici della nazione. Rumena sarà anche la moglie, Elena Piaseski, alla quale resterà legato per tutta la vita. Dal 1935 al 1943 l’allora dirigente viene mandato in Germania per collaborare con la Wermacht, anche se da fonti certe si veniva a sapere che più che altro Codecà svolgeva un ruolo di controllo e deterrenza nei confronti dei piani di acquisizione aggressiva tedesca ai danni dell’automotive italiana. Nel 1943 l’ingegnere torna in Italia e diviene direttore del laboratorio sperimentale della Fiat al Lingotto. Nel 1950 ottiene l’incarico di direttore della sezione Fiat Grandi Motori, stabilimento per la produzione di motori navali, con sede in corso Vercelli a Torino. A cinquant’anni l’ingegnere Codecá è un autentico snodo tra i poteri apicali di mezza Europa e, grazie alla sua posizione, intrattiene stretti rapporti anche con gli alleati statunitensi.
Le indagini
Codecá, a sentire il medico legale, è sì stato ammazzato da un colpo di pistola, ma non alla nuca. Quel foro intriso di sangue raggrumato sulla nuca è stato causato da una pietra e dunque si sarebbe formato in seguito alla caduta causata dallo sparo. La vera ferita mortale è strana. Il proiettile s’infila nell’emitorace destro, trapassa fegato, polmone sinistro e cuore, prima di fuoriuscire all’altezza della scapola sinistra per terminare la sua corsa nell’imbottitura della giacca. Uno sparo drammaticamente fortunato esploso da una pistola calibro 9. Le verifiche delle abitudini e degli orari di Codecá, che soleva portare fuori il cane “Cochi” dopo le 21 circa, cozzano con quell’esplosione così improvvisata tanto da indurre a pensare che il killer fosse un individuo inesperto. Il movente? Forse è una cosa di donne. L’ingegnere, infatti, sarebbe piuttosto sensibile al fascino femminile, e alcuni testimoni parlano di almeno due relazioni adulterine. S’indaga sui mariti traditi, ma la pista finisce in un nulla di fatto. Salta fuori però un indizio davvero interessante per gli inquirenti e che riguarda altre donne nella vita di Codecá.
La pista Rumena
Mentre Erio Codecá esanime giace in quella via buia e acciottolata a pochi passi da casa, la moglie e la figlia si trovano in villeggiatura a Rapallo. Gli inquirenti appurano che quello stesso giorno la moglie dell’ingegnere avrebbe effettuato almeno due chiamate verso un numero svizzero, numero che si scoprirà appartenere ad una istitutrice rumena di 67 anni, intima amica di famiglia. La Svizzera è un luogo molto frequentato dall’ingegnere e famiglia e tra i Cantoni gira voce che la moglie Elena voglia fare espatriare la sorella con l’aiuto dell’alto profilo internazionale del marito. Quelle voci parlano anche di un incontro tra Codecá ed i Servizi sovietici e rumeni per favorire la questione dell’espatrio e si parla anche di segreti industriali chiesti in cambio. In effetti nel cassetto della scrivania della vittima vengono trovati documenti cifrati dal contenuto mai rivelato. Se Erio Codecá abbia declinato un’offerta che non avrebbe dovuto rifiutare non si saprà mai, ma quel colpo di pistola che qualcuno gli ha sparato alla carlona fa dubitare di un improbabile coinvolgimento dei servizi segreti. Le voci svizzere rimangono tali e la pista si arena.
La pista rossa
Alla sede FIAT di Mirafiori il giorno seguente all’omicidio c’è un’aria strana. Quell’aria immobile che sospende il tempo, l’aria classica che si respira dopo un fattaccio. Quel giorno l’aria che tira in azienda è diversa, ma non è l’unica cosa inusuale. Sulla facciata dell’edificio, accanto all’ingresso principale, è apparsa una scritta più che eloquente fatta con un gessetto bianco: “E uno, attenzione al due!“. Tanto basta agli investigatori per spostare le indagini nella direzione politica che non può che essere quella della rivoluzione armata proletaria. La conquista del potere tramite la violenza con le armi era un’idea che le frange più estremiste della resistenza partigiana comunista non nascondevano affatto. Anzi era parte integrante del proprio manifesto di ricostruzione postbellico. Decine di migliaia tra pistole fucili e chilogrammi di esplosivo erano rimaste nelle mani della Resistenza, pronte a scatenare la rivoluzione rossa. Ad avallare questa ipotesi c’è una lettera anonima che arriva qualche tempo dopo l’omicidio sulla scrivania del direttore generale della FIAT Valletta. In quella lettera c’è il nome dell’omicida, si chiama Peppino ed è un ex partigiano.
Resistenza assassina
La lettera giunta in direzione generale viene inviata a due investigatori privati milanesi, Costantino Gandini e Filippo Argenti, a loro il compito di battere la pista per cont dell’azienda torinese. I due riescono rapidamente a risalire all’identità di Peppino; l’ex partigiano, presunto omicida si chiama Giuseppe Mercuri, è un fanatico comunista e secondo i due detective nasconde in casa un arsenale, tra cui diverse armi da fuoco calibro 9. Sempre secondo Gandini e Argenti, il supposto assassino avrebbe commesso diverse atrocità durante la campagna partigiana. Gli investigatori milanesi avrebbero confezionato ad hoc un dossier di una ventina di pagine e lo consegnano alla Questura di Torino. Quest’ultima smonta il dossier pezzo per pezzo.
Mercuri non è un fanatico, non ha mai commesso atrocità durante la guerra e il suo arsenale è costituito da una sola pistola St. Etienne calibro 6.35. Si scopre anche che l’autore anonimo della lettera è un panettiere genovese, creditore per 100.000 lire nei confronti di Mercuri. Più la polizia approfondisce il caso, più si convince che quel dossier sia stato cucito dolosamente addosso a Mercuri da parte di Gandini. L’investigatore privato meneghino infatti era stato un fascista della prima ora poi espulso dal partito. L’uomo era stato anche in contatto con i servizi inglesi almeno fino al 1950. La pista di Giuseppe Mercuri ha tutta l’aria di essere un depistaggio, un primo sentore di quella che poi diventerà la “strategia della tensione”. Mentre l’investigazione privata batte la pista della lettera, la Procura di Torino indaga su individuo ben diverso; si tratta sempre di un ex partigiano ma volta il soggetto è un violento autentico, per vocazione, e si chiama Giuseppe Faletto.
Il killer e la trappola
Il nome di Faletto salta fuori dalla bocca di due balordi di bassa lega, Michele Vinardi e Angelo Camia, i quali durante alcune dichiarazioni spontanee rese agli inquirenti, rivelano di aver sentito Faletto vantarsi dell’omicidio di Codecá, ammazzato con una Beretta calibro 9, che effettivamente l’ex partigiano detiene. I carabinieri decidono di incastrare il Faletto con l’aiuto dei due “pentiti” e decidono di commissionargli un altro omicidio di alto livello. Addirittura l’assassinio del numero due della Fiat Valletta. Vinardi e Camia incontrano il Faletto in una cascina nelle campagne torinesi, lo invitano a cena e gli offrono 20 milioni di lire per il delitto. Lo fanno bere e tanto, vogliono fargli confessare l’omicidio Codecá mentre sotto il tavolo un magnetografo registra tutto. I due falliscono, ci riprovano altre volte, ma nonostante i fumi dell’alcol Faletto non si sbottona.
Passano alcune settimane e l’ex partigiano comincia a innervosirsi. Telefona di continuo ai due committenti chiedendogli più volte quando si procederà con l’omicidio di Valletta. Faletto è impaziente, talmente impaziente che per evitare che la situazione precipiti i carabinieri decidono di arrestarlo preventivamente. Gli inquirenti mettono meglio a fuoco la figura del fermato: partigiano, legato alle Brigate badogliane prima e a quelle delle Camicie rosse garibaldine dopo, Faletto viene espulso da queste ultime con l’accusa di utilizzare gli armamenti della resistenza per commettere rapine e omicidi. Secondo il Pm quel partigiano violento conosciuto come il “Boia della val Susa” è a tutti gli effetti l’assassino dell’ingegnere Codecá. Nel 1958 inizia il processo a suo carico. Il pubblico ministero si scontra subito con la difesa che demolisce mattone su mattone il debole castello accusatorio.
Esami forensi confermano che le striature sull’ogiva rinvenuta nella giacca del Codecá non corrispondono a quelle che sarebbero state causate da una Beretta, inoltre i nastri registrati durante le cene trappola sono deteriorati dunque inservibili. Le testimonianze dei due balordi, come quelle che rimandano alla la pista rumena, rimangono voci e in quanto tali se le porta via il vento. L’accusa decide di correggere il tiro e, con l’aiuto della stampa cattolica animata da sacro furore, decide di rendere il procedimento un processo alla Resistenza, quella violenta, quella comunista. Dopo tre gradi di giudizio Faletti viene riconosciuto colpevole per diverse rapine e omicidi durante la campagna di resistenza partigiana in Piemonte, ma non per l’assassino di Erio Codecá.
La pista a Stelle e Strisce
Roberto Gremmo è uno scrittore ed ex operaio alla FIAT. Ai tempi della morte di Codecá ricorda come gli operai fossero certi che la scritta col gesso sulla facciata frontale che diede il via alla “pista rossa“, era stata vergata da un alto dirigente FIAT democristiano. Ciò a dimostrazione che già il giorno dopo l’omicidio qualcuno aveva voluto orientare l’inchiesta verso la matrice comunista. Mentre altri particolari, seppur importanti, vennero tralasciati. Negli anni 50 gli Stati Uniti impongono ai Paesi alleati un embargo ai danni dell’URSS. Le nazioni con forte influenza sovietica come l’Italia non sono immuni alle lusinghe del facile guadagno, frutto del mercato nero e non ne sono immuni nemmeno le grandi aziende private del Bel Paese.
È riconosciuto da più parti come molte imprese nostrane commerciassero illegalmente metalli come il platino, il cadmio e il germanio tramite doppi fondi nascosti su vagoni merci, con snodo principale in Svizzera. Sì può facilmente immaginare che anche la FIAT potesse avere le mani in pasta in questi loschi traffici che ci riportano a quelle carte cifrate mai tradotte nella disponibilità della vittima. Che l’ingegnere Codecá volesse defilarsi da qualcosa di troppo rischioso? Oppure si era accorto che qualcuno lo aveva scoperto in relazione con certe persone sbagliate? Quando la vicenda sembra assumere contorni ben delineati e verosimili ecco che ci si scontra con la realtà dei fatti. Quello sparo é troppo goffo, troppo impreciso, per essere opera di un sicario professionista. Oppure un killer professionista avrebbe sparato in quella maniera di proposito per confondere le acque? Chissà.
L’ingegnere Codecá è stato inghiottito dal mondo della “Cortina di ferro”. Sì è trovato a gestire un ruolo pericoloso e ad oggi conoscere i dettagli dei suoi affari è impossibile. Ma sarebbe ancora molto comodo e attuale per la Giustizia mettere le mani su nomi e cognomi di quel famoso carteggio. In buona sostanza il fattaccio rimane un monolite blindato in ricordo della guerra fredda sul suolo italiano. Una vera e propria Spy-story all’ombra della Mole Antonelliana.