Le campagne friulane sono macabro teatro di una lunga scia di femminicidi tra il 1971 e il 1989. Per più di trent’anni le piste rimangono inconsistenti e vacue, ma alcuni reperti revisionati nel 2019 potrebbero aprire a scenari del tutto inediti.
UDINE – Il 25 febbraio del 1989 in città fa freddo e la pioggia batte insistente sui vetri appannati del Bis Bar in via Cividale. All’interno alcuni militari fissano attoniti un’elegante signora sbraitare contro di loro sotto i pesanti fumi dell’alcol. La donna grida talmente forte che la proprietaria del locale è costretta a chiamare le forze dell’ordine. L’avventrice molesta si dilegua prima dell’arrivo della pattuglia lasciando un macabro monito ai clienti presenti: “Lo sai che se esco di qui mi ammazzano?”. Il monito si rivelerà drammaticamente profetico quando la mattina successiva il giovane poliziotto della omicidi Edi Sanson troverà il cadavere della donna scannato e gettato tra i calcinacci di un canale nelle campagne friulane. Il nome della donna è Marina Lepre e la gola squarciata in quel modo brutale rimanda la mente del giovane appuntato ad almeno altri tre casi.
Altre tre donne scannate. 1980 Maria Carla Bellone strangolata, sgozzata e vilipesa con uno squarcio longitudinale di 50 centimetri sul ventre che esclude l’ombelico. 1983 Luana Gianporcaro rinvenuta anch’ella strangolata, sgozzata e con l’addome squarciato questa volta da due tagli longitudinali sempre ad evitare l’ombelico. 1985 Aurelia Januschewitz stesso modus operandi ma questa volta i profondi tagli sono 3 e anche questa volta non intaccano l’ombelico. Tagli effettuati con dovizia chirurgica probabilmente con un bisturi.
Oltre le brutalità subite dai propri corpi le quattro vittime condividono anche il fatto di trovarsi in momenti difficili della propria esistenza. Quattro esseri fragili che qualcuno ha deciso di distruggere. Se è così allora quel qualcuno deve essere un serial killer.
Il chirurgo, l’avvocato e il killer profeta.
La sera del 26 febbraio del 1989 Edi Sanson decide con un collega di tornare in quel dedalo ridondante di piccoli pioppeti, roveti e canali che per ultimi hanno custodito le spoglie di Marina Lepre. Giunti nei pressi della zona dove avvenne il ritrovamento i due poliziotti si rendono presto conto di non essere gli unici in quelle brade campagne di confine, infatti i fari di un’auto brillano poco distanti da loro. Sono i fanali di un Maggiolone verde e una volta accostatisi ad esso i due poliziotti chiedono i documenti all’uomo seduto al posto di guida. La luce blu del lampeggiante illumina ad intermittenza il volto del calvo sconosciuto, un volto scarno e dagli occhi confusi.
Il cuore di Edi Sanson si ferma per un istante quando nota che alla voce impiego il documento d’identità riporta: medico chirurgo. Il documento viene restituito allo sconosciuto, i due ripartono e si lasciano alle spalle quel Maggiolone ancora fermo immobile e con i fari accesi. Gli agenti decidono di pedinare il sospetto che, dopo alcuni minuti, comincia a percorrere abilmente quelle strette viuzze sterrate fino a giungere presso il sagrato di una chiesa. L’anziano medico scende dal veicolo, si getta carponi ai piedi del portone del santuario e comincia ad intonare una litania dai rimandi sacri. A quel punto i due agenti di polizia che assistono alla scena parcheggiati poco lontano decidono di chiamare una pattuglia di supporto e approfondire la vicenda con il “chirurgo” in centrale.
L’attempato professionista continua a negare categoricamente di avere rapporti con il sesso opposto, nessun tipo di rapporto. Gli viene mostrata la foto di Marina Lepre e a quel punto l’uomo si chiude a riccio, smette di rispondere e gli inquirenti sono costretti a rilasciarlo. Viene fuori che il chirurgo in paese lo conoscono tutti e che da nessuno è reputato una persona pericolosa. È un po’ suonato da quando il fratello è morto prematuramente in un incidente stradale, infatti in paese dicono che non ha mai esercitato la professione a causa del suo stato mentale. Viene fuori però anche una testimone, Livia Fratte, una giovane della zona che dice di aver visto un pomeriggio il sanitario sulle sponde del vicino torrente Torre. L’uomo srotolava un lenzuolo sul terreno, poi con un bisturi lo incideva con tagli longitudinali come a simulare un’operazione chirurgica. Saltava fuori anche che il chirurgo si era specializzato in ostetricia e che quei tagli erano simili a quelli effettuati ai tempi per indurre i parti cesarei. Quell’uomo, in camice bianco, sembra davvero un tipo strano.
Gli inquirenti decidono di bussare alla porta della sua abitazione. Sono passati appena due giorni dal ritrovamento di Marina Lepre e a quella bussata dà risposta un robusto uomo di mezz’età. Il bizzarro personaggio indossa una vestaglia barocca, sembra un uomo d’altri tempi. E’ il fratello del chirurgo e si qualifica come avvocato. Interrogato in centrale il sedicente legale si dichiara estraneo agli avvenimenti come secondo lo sarebbe anche il fratello, a suo dire. Ma il suo atteggiamento non fa che aumentare i sospetti degli investigatori. L’ossessionante religiosità del chirurgo potrebbe fare di lui un killer profeta, un assassino mandato da Dio per epurare il mondo da esistenze considerate oscene ed immorali. Le congetture e i sospetti non sono però sufficienti al Gip per aprire un fascicolo sui due fratelli. Infatti passeranno sette anni prima che nel 1996 venga rilasciato il mandato per la perquisizione dell’abitazione dei due germani.
Il vice brigadiere Fabio Pasquariello perquisisce per primo l’abitazione. Le stranezze sono parecchie. Nella camera da letto del chirurgo c’è un vecchio armadio di noce, al suo interno svariate grucce sono colme di abiti della madre morta da diverso tempo. Viene trovato un kit di soccorso di emergenza. Tutti gli attrezzi sono al loro posto tranne uno, il bisturi. Le stranezze sono tante, troppe ma continuano ad essere congetture, la pistola fumante non c’è. L’essere strano non equivale ad essere un assassino e la pista in assenza di nuovi risvolti si arena dopo qualche mese. È tutto da rifare.
Uomini che odiano le donne.
Gli inquirenti decidono di dare respiro più ampio alle indagini. Le donne in Friuli muoiono troppo spesso e da troppi anni. Mentre i titoli dei giornali negli anni di piombo scrivono intere pagine sulle brigatiste friulane, il sottobosco sociale di quel crocevia selvaggio fatto di traffici criminali con la Jugoslavia dà vita ad esistenze sempre più fragili. L’eroina inonda le strade, la prostituzione dilaga come logica conseguenza e la violenza pure. Diverse le vittime di quest’ultima. Il 21 settembre 1971 viene trovato il cadavere di Irene Belletti all’interno della sua Lancia Fulvia vicino la stazione di Udine. La donna è stata raggiunta da 9 fendenti alla schiena e al collo.
Esattamente 5 anni dopo il 21 settembre del 1976 Maria Luisa Bernardo viene rinvenuta in un campo di granturco, 22 coltellate una delle quali le spacca il cuore. L’auto della donna zuppa di sangue viene trovata nei paraggi. Il 29 settembre del 1979 è la volta di Jaqueline Brechbühler uccisa con 10 coltellate e abbandonata in un altro campo di granturco dove verrà trovata il 3 ottobre. Il 1984 è anno di sangue. Maria Bucovaz viene rinvenuta il 22 maggio sempre nelle campagne di Udine, strangolata con una calza di nylon. Matilde Zanette muore strangolata in agosto e il suo corpo ritrovato in un terzo campo di granturco. Il 29 dicembre stesso destino tocca a Stojanka Joksimovic, anche lei strangolata con una calza di nylon e poi brutalizzata con un punteruolo.
Ci sono vittime dicevamo e ci sono i carnefici. Alcune prostitute cominciano a presentarsi spontaneamente davanti gli inquirenti. Dicono che c’è un uomo, un violento, che almeno dal 1978 aggredisce prostitute tentando di strangolarle durante l’amplesso. L’uomo è un giovane falegname di Fagagna e si chiama Luigi Sebastianis. Il sospetto viene sentito e poi portato sulla scena del crimine Zanette, lì crolla e confessa l’omicidio. Verrà condannato a 17 anni di carcere da dove si proclamerà innocente dopo aver ritrattato la confessione, a detta sua estortagli all’epoca dei fatti.
Eugenia Tilling è una prostituta e viene uccisa nel 1975 con 7 pugnalate una delle quali recide la gola. La donna viene trovata sul letto della sua casa di via Cosattini in un lago di sangue. Per l’omicidio viene condannato a 16 anni di carcere Walter Lizzi reo confesso. Dice di aver agito in preda un raptus causato da alcune battute di scherno della vittima nei confronti della sua presunta impotenza. Anche lui professa la sua innocenza una volta dietro le sbarre. Altra deposizione ritrattata, altra presunta estorsione subita.
È ormai il 1991 ma le donne continuano a morire nelle campagne friulane. Nicla Perabò viene rinvenuta cadavere il 4 ottobre, strangolata e sotterrata in un boschetto fuori mano. Tale Bruno Leita confessa di averla uccisa da ubriaco durante un raptus scatenatogli dal pensiero della moglie. Viene arrestato ma nega qualunque coinvolgimento con gli omicidi irrisolti. Secondo Gian Paolo Tosel, il magistrato inquirente che per primo si occupò delle donne ammazzate, non si deve parlare di un solo mostro, ma di mostri. Si tratta di uomini che odiano le donne. Purtroppo nulla di nuovo, triste quotidianità a tutt’oggi.
La revisione dei reperti e i nuovi scenari
Gli omicidi sembrano perdersi ormai nei ricordi quando nel 2019 l’avvocato Federica Tosel, rappresentante legale delle famiglie Bellone e Bernardo, chiede e ottiene la riapertura delle indagini sui due delitti. Il motivo sono alcuni elementi mai repertati prima saltati fuori durante le riprese della miniserie curata dal regista Matteo Lena – “Il Mostro di Udine“. “Si tratta di un profilattico scartocciato contenente semiliquido biancastro rinvenuto all’interno dell’auto della Bernardo, alcuni capelli di colore bruno e uno biondo sul maglioncino riposto sopra il ripiano del sedile posteriore e infine di uno spinello recuperato dal fascicolo della Bellone“. Queste le dichiarazioni rilasciate dall’avvocato Tosel.
I nuovi reperti sono passati per le mani dei Ris di Parma e i risultati delle analisi sarebbero già a disposizione della magistratura friulana. Fonti investigative riferiscono che i profili riscontrati sono 4: due maschili e due femminili. Sempre secondo le stesse fonti i medesimi profili genetici sarebbero presenti su altri reperti riconducibili ad altri omicidi irrisolti, rimasti sepolti per quarant’anni tra i faldoni degli archivi nel tribunale di Udine. Le famiglie delle vittime assistite dall’avvocato Tosel sperano finalmente di poter dare un volto a chi ha tolto la vita ai loro cari, a quell’uomo che ha odiato le loro donne.