Di origine friulana, emigrato in Sudamerica, nel 1959 aveva tentato la scalata del Mercedario, uno dei giganti delle Ande con i suoi 6.770 metri di altezza. Ma non aveva più fatto ritorno.
Pordenone – Riemerso dai ghiacci dopo 63 anni. Ha riposato per tutto questo tempo sotto le nevi eterne delle Ande il 63enne Vincenzo Chiaranda, alpinista friulano classe 1909 di Grizzo di Montereale (Pordenone), di cui nel 1959 si erano perse le tracce mentre stava tentando la scalata del Mercedario, uno dei giganti delle Ande con i suoi 6.770 metri di altezza.
Classe 1909, Vincenzo Chiaranda era emigrato in Bulgaria e in Svizzera prima di raggiungere, nel 1946, il fratello Angelo in Argentina. Nel 1948 si era trasferito a Santiago del Cile, dove aveva aperto un ristorante molto noto e frequentato da artisti e scrittori, il “Chiaranda” appunto. Ma accanto al lavoro come ristoratore, Vincenzo coltivava anche la passione dell’alpinismo, che lo aveva condotto nel 1953 sulla vetta dell’Aconcagua (6.960 metri), la montagna più alta del continente americano, e tre anni dopo sulla cima dell’Ojo de Salado (6.880 metri), il vulcano più alto del mondo. Impresa, la prima, che lui stesso ha documentato con la sua inseparabile macchina da presa, immagini poi finite in un cortometraggio intitolato “Un metro mas alto que el Aconcagua”, un metro più alto dell’Aconcagua.
Poi nel 1959 la decisione di scalare il Mercedario per andare alla conquista di una delle vette più alte del Sud America. Un viaggio da cui però non aveva più fatto ritorno.
Come racconta Il Messaggero Veneto che riporta l’intera storia, il suo corpo ibernato è stato trovato il 10 gennaio 2022 da una spedizione di due giovani esploratori cileni, Horacio Ritter e Erick Pizarro, partiti per il Mercedario proprio per compiere la stessa impresa di Chiaranda. Dopo un primo fallito tentativo, i due ci avevano riprovato – anche in questo caso senza riuscirvi -, ma sulla strada del rientro, mentre vagavano avvolti dalla nebbia, si erano imbattuti in ciò che restava dello zaino di Chiaranda. Accanto c’erano anche sei contenitori di alluminio che custodivano altrettante bobine che l’alpinista aveva registrato durante la sua ultima scalata. Il corpo dello scalatore friulano giaceva poco distante, ibernato: aveva con sé la piccozza, la macchina fotografica e un orologio, anche lui congelato nel tempo, toccante testimonianza del tragico epilogo della sfortunata spedizione.
Tornati a casa, i due cileni si sono dati da fare nel tentativo di dare un nome e un’identità al corpo che avevano trovato. Durante le ricerche è spuntato il diario di un altro alpinista che partecipò alla spedizione del 1959: raccontava che Chiaranda aveva raggiunto la cima del Mercedario insieme a due alpinisti ma che durante la discesa, rivelatasi estremamente complicata a causa della nebbia, uno di loro era rimasto vittima di congelamento e poiché non riusciva a camminare era stato portato a braccio dal compagno. Chiaranda era rimasto indietro per fare delle riprese e gli altri due avevano cercato di chiamarlo più volte. Invano.
Del ritrovamento, Ritter ha informato i familiari di Chiaranda soltanto lo scorso ottobre. Lo scalatore cileno si è recato appositamente a Grizzo, dove oggi vivono il nipote di Vincenzo, Luciano, e i suoi figli, per riconsegnare loro l’orologio e gli altri effetti personali del congiunto da lui recuperati sul Mercedario. «Oggi, finalmente, posso pensare che mio zio, il mio mito sin da bambino, si sia addormentato sereno tra le sue amate montagne», ha detto il nipote Luciano Chiaranda al Messaggero Veneto.