L’ultimo rapporto sull’infanzia a cura della Fondazione CESVI fotografa la realtà: i maltrattamenti sono comunque nocivi.
Roma – Le “sgridate” ai figli possono essere dannose. E’ comune a molte persone che durante la loro adolescenza abbiano ricevuto delle “sgridate” dai genitori, quei rimproveri a voce alta e risentita per esprimere severità in occasione di qualche marachella o per non averne seguiti i principi educativi. In certi periodi storici bastava uno sguardo torvo senza proferire parole della figura paterna, per incutere terrore nel malcapitato figlio. E se si osava rispondere erano percosse in abbondanza. I tempi sono cambiati, fortunatamente, così come gli strumenti educativi.
Tuttavia i rimbrotti sono ancora diffusi, almeno secondo l’ultimo rapporto sull’infanzia a cura della Fondazione CESVI (Coesione Sviluppo) la cui “mission” è il supporto alle popolazioni più indifese nella promozione dei diritti umani. Spesso i genitori a loro insaputa non badano al fatto che le parole possono essere pietre. Infatti, quando si trasformano in intimidazioni ed offese ecco sorgere le criticità. Si è sempre detto il loro intento è a scopo educativo. Ma, come è noto, di buone intenzioni, è lastricata la via dell’inferno. Secondo il “Manuale diagnostico di salute mentale dei disturbi dello sviluppo e dell’infanzia”, un rapporto negativo genitori-figli si manifesta con metodi mortificanti o menefreghisti. Gli effetti per i bambini possono essere traumatici, anche se la sgridata avviene una sola volta.
Assodato che essere genitore è uno dei compiti più difficili che possano esserci, bisogna essere persuasi che le cosiddette “maniere dure” sono controproducenti. La pedagogia moderna suggerisce che i bambini in quanto tali non possono avere colpe specifiche, proprio perché non hanno, ancora, completato la loro maturazione, essendo ancora in itinere. Piuttosto sarebbe da comprendere perché i genitori perdono la pazienza, andando “giù di testa”. Di spiegazioni ce ne possono essere diverse, tra cui un ritmo di vita stressante, faticoso ed insostenibile, tra lavoro e incombenze familiari. Se così fosse, il problema andrebbe risolto fuori dal rapporto col proprio figlio. Necessita, quindi, un cambio di paradigma culturale che insegni ad essere credibili, decisionali ma non autoritari. Solo in questo modo, secondo gli autori del rapporto, si potrà stimolare l’indipendenza del bambino ed avere la capacità di stabilire dei limiti.
E’ chiaro che “sulla carta” tutto fila alla perfezione, la realtà poi ci frappone una serie di imprevisti. Innanzitutto, bisogna partire da aspettative che si possono concretizzare, nonché stabilire dei criteri di comportamento e sane abitudini, magari attraverso il gioco. Una distinzione salutare per le dinamiche emotive che si sviluppano tra genitore e bambino è quella tra le esigenze e le bramosie. Le prime sono vitali, le seconde possono essere oggetto di trattativa. In questa fase è importante, da parte del genitore, una sana gestione delle emozioni per evitare che si trascenda nell’irritazione, con tutte le conseguenze negative, ben note. Inoltre, se il bambino ha commesso qualcosa di negativo, la sanzione deve essere commisurata all’azione.
Comunque, i maltrattamenti in generale producono solo danni al bambino e al suo benessere psicologico. Inoltre, non lo aiutano nel suo sviluppo, perché sono diseducativi. Infatti, se il bambino non commette atti impropri è per il timore delle punizioni, non per averne acquisito consapevolezza. Ed è l’aspetto più allarmante, perché il maltrattato di oggi, sarà, con molta probabilità un prevaricatore domani. Un circolo vizioso che rischia di non avere vie d’uscita!