Comodo approfittarsi di persone coraggiose per colpire la mafia. Lo Stato dalle braccine corte dimentica e abbandona al proprio destino. Che si arrangi.
Palermo – Troppo spesso si fa confusione tra collaboratori e testimoni di giustizia. Il collaboratore di giustizia, il cosiddetto pentito, è un appartenente ad una organizzazione criminale che a un certo punto della sua vita decide di svelare i segreti di cui è a conoscenza, consentendo operazioni di polizia in grado di scardinare clan e mandamenti.
Ben altra cosa è il testimone di giustizia. Un cittadino, un soggetto esterno ed estraneo alle organizzazioni criminali che, vessato dalle cosche mafiose che controllano il territorio, decide di denunciare per esempio i suoi estortori. Non sono molte le persone che hanno il coraggio, senso civico e amor proprio per accusare i propri aguzzini. Chi denuncia si aspetta che lo Stato sia pronto e attento nel difenderlo e proteggerlo ma il sistema di protezione dei testimoni, così come quello dei collaboratori, è pieno di falle e si corre il rischio di finire nella bocca del lupo.
Chi denuncia rischia l’isolamento e la solitudine. Ed è considerato alla stessa stregua dei pentiti, e anche deriso. Finisce con il pentirsi davvero ma della sua decisione di parlare. La legge n.6 dell’11 gennaio 2018, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto superare l’ambiguità della precedente disciplina in materia operando anche un netto distinguo tra il collaboratore e il testimone di giustizia, spesso sovrapposti.
L’art. 3 di detta legge definisce le misure di tutela, di sostegno economico e di reinserimento sociale e lavorativo. Ai testimoni deve sempre essere assicurata una “condizione economica equivalente a quella preesistente”. L’art. 4 stabilisce poi che in ogni caso deve essere assicurata al testimone e agli altri protetti (le persone stabilmente conviventi con il testimone a qualsiasi titolo, o coloro i quali, per le relazioni che intrattengono con quest’ultimo, siano esposte a grave, attuale e concreto pericolo) “un’esistenza dignitosa”.
Purtroppo sappiamo che troppo spesso la legge ha fallito, soprattutto nei decenni passati. Le cronache sono piene di appelli e storie di persone che dopo aver dato preziose informazioni e svelato misteri impensabili è stata tradita da quello Stato che aveva promesso tutele e sostegno in cambio della loro testimonianza. Da anni Bennardo Mario Raimondi, 59enne ceramista, che 18 anni fa ebbe il coraggio di denunciare i suoi usurai, lancia i suoi appelli alle istituzioni per chiedere aiuto, sentendosi solo e abbandonato da tutto e da tutti.
Nessuno risponde alle sue grida di aiuto. La sua lotta per la legalità gli ha fatto perdere tutto, facendogli condurre una vita di stenti e privazioni. Michele Tramontana, coraggioso imprenditore che ha denunciato un presunto gruppo di usurai, dopo un fallito agguato è stato diffidato dal tornare in Calabria e non ha potuto presenziare al processo contro i suoi persecutori.
La sua vita è in pericolo costante ma non è dello stesso avviso il Viminale per il quale l’uomo non può tornare nella sua regione per motivi di sicurezza ma nel contempo è stato sfrattato dal suo programma di protezione. Ignazio Cutro, imprenditore siciliano di Bivona nell’agrigentino, è un onesto cittadino che ha denunciato la mafia mettendo a repentaglio la sua vita. Oggi è il presidente nazionale dell’associazione Testimoni di Giustizia.
È rimasto nella sua terra, non si è arreso e ha vinto molte battaglie. Queste sono solo alcune delle tante storie di persone accomunate non dalla ricerca della legalità ma dalla mancanza, o dalla revoca, del sostegno economico e psicologico promesso. L’esempio dunque è pessimo. Sarà per questo che di collaboratori e testimoni di giustizia ce ne sono sempre di meno?
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