E’ un dubbio ma pare che in quella zona il Bel Paese sia ben piazzato per quanto riguarda la vendita di armi, mine antiuomo e materiale bellico diverso. E dire che il M5S, Di Maio in testa, avevano fatto fuoco e fiamme per ridurre l’esportazione di armamenti, invece tutto come prima.
Non possiamo che rallegrarci per la ritrovata libertà di Silvia Romano dopo quasi 18 mesi di prigionia. La notizia, giunta in uno dei momenti più complicati della storia italiana, ha diffuso un corale senso di felicità per la Penisola, come se l’esempio espresso dalla ragazza possa diventare modello per tutta la popolazione. Il calvario subito dalla volontaria milanese, però, potrebbe non essere ancora terminato. Nei prossimi giorni gli esperti del settore valuteranno l’entità dei danni psicologici che la detenzione forzata potrebbe aver provocato sulla giovane.
Nell’augurarci che la degenza possa essere il più breve e il più indolore possibile, non possiamo che approfittare del momento per sviluppare una analisi più approfondita sulla situazione politica dell’Africa subsahariana, con particolare interesse verso il Corno d’Africa. Nello specifico la detenzione di Silvia Romano ha avuto luogo nello stato somalo, attualmente governato da Mohamed Farmajo, ad opera del gruppo jihadista al-Shabaab (i giovani). L’organizzazione sarebbe nata nel 2006 in seguito alla sconfitta dell’Unione delle Corti Islamiche da parte del Governo Federale di Transizione. Dal 2008 è entrata a far parte della lista delle organizzazioni terroristiche degli Usa e dal 2012 il gruppo jihadista al-Shabaab ha giurato fedeltà ad al-Qaeda. Non potendo contare su un contingente di pari forze rispetto a quello dell’esercito ordinario somalo, il modus operandi dell’organizzazione è facilmente riconducibile alla guerriglia urbana di logoramento. L’obiettivo è quello di creare uno stato di tensione costante, che renda difficoltoso per il governo centrale esercitare pacificamente il potere.
La situazione interna della Somalia è estremamente complicata e il contorno geopolitico circostante, forse, lo è ancor di più. Sia per la posizione geografica che per le risorse del territorio, lo Stato africano è da sempre attraversato da molteplici trame politiche che, a seconda dei momenti e degli interessi specifici, portano governi stranieri a interessarsi delle sorti del Paese. Negli ultimi anni tra i Paesi commercialmente più vicini alla Somalia troviamo la Turchia di Erdogan. All’inizio di quest’ anno Ankara ha annunciato un accordo con Mogadiscio secondo il quale il governo turco ha il diritto di esplorare le risorse energetiche all’interno del territorio. Un accordo che ricalca il già precedente trattato del novembre 2019. Una sorta di soft power in puro modello cinese. Il Paese più sviluppato offre manodopera, ammodernamento delle infrastrutture e protezione militare, in cambio ottiene la prelazione sui giacimenti e sulle risorse territoriali. Una sorta di neocolonialismo legalizzato a livello internazionale. La crescente ingerenza turca nel territorio somalo ha aumentato i malumori degli estremisti di al-Shabaab i quali hanno risposto aumentando l’attività terroristica che ha coinvolto anche esperti e militari dell’Anatolia.
Nel medesimo tempo la posizione geografica della Somalia ha destato notevole interesse nei governi dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi e del Qatar; tutti impegnati nel conflitto in Yemen. Nello specifico la zona conosciuta come Somaliland al nord della Somalia, autoproclamatasi indipendente nel 1991 ma mai riconosciuta da nessun Paese al mondo, è stata teatro di violente dispute tra gli estremisti somali e i Paesi del Medio Oriente. Nel 2017, quando il Qatar è venuto meno agli impegni bellici, la geopolitica intorno al Mar Rosso ha subito una notevole incrinatura: la Somalia si è trovata costretta a scegliere se schierarsi con l’asse Ankara-Doha o con Abu Dhabi-Riyad. Sebbene formalmente neutrale, Mogadiscio ha optato per conservare con la Turchia i rapporti economici e militari. Da quel momento è cominciata una guerra silente, ad opera degli Stati del Medio Oriente, per convincere il governo somalo ad abbandonare le proprie posizioni. Tramite una vasta rete di strategie e giochi sporchi le milizie di al-Shabaab hanno probabilmente ricevuto finanziamenti dai nemici di Mogadiscio, tra cui Boko Haram in Nigeria. Logicamente non si tratta solamente di denaro ma anche di armi e attrezzatura militare di vario genere. Per ragioni più che intuitive non esistono documenti che possano testimoniare l’avvenimento, sarebbe quanto meno strano il contrario. Ma ciò che rende ancora più tortuosa questa vicenda è il fatto che Turchia, Nigeria, Qatar e gli Emirati Arabi siano tutti armati da uno stato occidentale: l’Italia.
Secondo l’ultima “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito di materiali di armamento”, presentata al Parlamento italiano nel 2019 per l’anno precedente, il Qatar è la nazione dove il Bel Paese ha destinato più armamenti, per un totale di quasi 2 miliardi nell’ultimo anno. Turchia ed Emirati Arabi Uniti seguono rispettivamente al terzo (362 milioni) e quarto posto (220,3 milioni). La Nigeria risulta essere un po’ più distaccata in questa classifica, ma comunque permette di far guadagnare all’Italia circa 32,4 milioni – per lo Stato nigeriano i dati relativi al 2017 e 2016 risultano sotto la voce “non disponibili” -.
Nonostante le feroci arringhe dei pentastellati nel periodo elettorale, neanche con Di Maio al governo l’esportazione d’armi da parte dell’Italia ha ottenuto una seria riduzione. Anzi, la vendita di materiale bellico a Paesi come gli Emirati Arabi e la stessa Turchia pone forti dubbi sulla reale attuazione del celebre articolo 11 della Costituzione italiana. Non solo, l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite concede la possibilità di fornire armamenti esclusivamente ai Paesi che sono costretti a usare la forza per legittima difesa. A far vacillare quest’ultimo, basterebbe pensare al conflitto turco-curdo e, in generale, al trattamento che Ankara riserva alle minoranze presenti in Anatolia.
Insomma per quanto il ritorno di Silvia Romano non possa che infondere felicità nella popolazione italiota, emergono perplessità sulla reale trasparenza del commercio internazionale d’armi portato avanti dall’Italia. È così difficile immaginare che gli armamenti venduti per vie legali possano transitare indirettamente nelle mani dei terroristi islamici? Che la brama di profitto possa in qualche maniera far chiudere un occhio su determinati rapporti? E se un giorno si scoprisse che le armi usate per rapire la giovane fossero state fabbricate in Italia? Quale sarebbe la risposta delle istituzioni?
Per il momento possiamo soltanto gioire per la ritrovata libertà di Silvia ma a quale prezzo? Sembra a 4 milioni di euro…