quel fascino fatto di eleganza, seduzione, sensualità a tradurre l’atmosfera di cui il jet-set si circondava ed emanava, quell’esclusività chiusa, inarrivabile, eppure presente ed in qualche modo emblema della società e del Paese da cui scaturiva.
La lettera J rappresenta un serio problema per la lingua italiana che la annovera nel proprio alfabeto per quella egemone esterofilia che riveste la realtà globale e, pur tuttavia, a me fornisce l’opportunità per una rievocazione storica. Mi piace vedere questa lettera come iniziale del vocabolo composto jet-set, che non consente rievocazione, a mezzo tra il nostalgico ed il decadente, con il fine di una riproposta che sarebbe assolutamente impossibile.
No. Il jet-set può essere rivisto soltanto in un’ottica storica come qualsiasi periodo di un passato che abbia portato via con sé, nel tempo, i propri paesaggi ed i propri personaggi. Ed è così anche per quel mondo glamorous, per quell’allure, in cui si muoveva il jet-set degli anni Sessanta. Lo sfondo? Sostanzialmente limitato tra gli spazi della Cote-d’Azur e le vie di Roma. I personaggi? Più o meno da favola. Principesse: Margaret d’Inghilterra, all’epoca vittima della ragion di Stato, Paola Ruffo di Calabria, già consorte di Alberto futuro re del Belgio, Soraya, la moglie ripudiata dall’imperatore (lo Scià) di Persia, eternata come colei che, sola, possedesse uno sguardo triste. Attori, registi: è l’epoca ancora dei Rossellini e dei De Sica, ma anche dei Fellini, dei Visconti, è l’epoca delle Bardot e dei Delon, dei Mastroianni e dei Gassman e poi c’era… lui: l’Avvocato. Gianni Agnelli, il tacito sovrano d’Italia, l’industriale rappresentativo non tanto del mondo imprenditoriale quanto della Signoria italiana, esattamente sinonimo di quella larghezza, di quella magnificenza e di quel potere che s’identificava con i Principati medicei e non.
E poi arrivava lei… la Jackie prima Kennedy e poi Onassis. Lui a lasciare i fasti di Villar Perosa per calarsi nella morbida, avvolgente, tiepida Roma ed ancor più nelle azzurre acque su cui dominavano i cerulei sguardi di Grace Kelly. Lei per apparizioni fugaci e saccheggianti negli atelier sempre di quella Roma che presto avrebbe ceduto il posto alla grande Milano, ma che, per ora, era la capitale, più che d’Italia, della vita, quella dolce, del mondo più “in”. Teste coronate e potenti di ogni ambito emergevano da una realtà che aveva sapore di ottimismo in tutto il mondo occidentale: era il tempo del boom economico, del progresso che sembrava alla portata di tutti, del nuovo che propagava il suo sentore in una tradizione che gli faceva da canovaccio e che lo esaltava con i suoi riti e le sue regole. Sarebbe arrivata la minigonna, ma ancora non c’era; si sarebbe ipotizzata “la fantasia al potere”, ma il potere era congelato in due schieramenti che dividevano la politica, l’economia, le società; si sarebbe cantato “We shall overcome”, ma ancora i bianchi erano i bianchi ed il resto del mondo aveva il valore che i bianchi gli davano e il jet-set era… il jet-set. L’elite.
Sembrerebbe un’affermazione banale. E’ un’affermazione banale. Ma c’è un particolare che fa la differenza: il riconoscimento indiscusso dei membri di quell’elite come “altro dal quotidiano”. Sarebbe arrivato il ’68, ma per ora c’erano loro: le dive e le principesse con i capelli cotonati, con le esclusive borse di Hermes, con i vestiti firmati da Dior e dalle sorelle Fontana, gli Armani, i Versace, i Ferrè sarebbero venuti poi, non ora. C’erano i loro cavalieri, i loro indefessi latin lovers con la camicia bianca e con la cravatta, cravatta talora sostituita da un torace abbronzato sotto il sole di Cap-d’Ail. E la straordinarietà di questo quadro che ne sa di superficialità sta proprio nel senso di benessere di tutti gli altri/altre che si sentivano ricchi e (perché no?) felici sulla loro 500, con le loro provviste nel frigorifero nuovo e con le loro lenzuola lavate dal nuovo elettrodomestico, anche loro con le teste cotonate perché così l’aveva B.B. o la Cardinale e con la camicia bianca, perché la polo, allora, si portava soltanto sui campi da tennis e loro mica lo giocavano, il tennis.
Ecco: è ripensando a quei nomi che so di parlare di storia, di un fenomeno diventato epoca con quella patina di cui un intero periodo si ricopre quando nulla di esso sopravvive nel tempo presente e non perché i personaggi fossero insostituibili, ma perché è il glamour di cui il loro mondo era portatore a non esistere più e non basta la parola fascino, quel fascino fatto di eleganza, seduzione, sensualità a tradurre l’atmosfera di cui il jet-set si circondava ed emanava, quell’esclusività chiusa, inarrivabile, eppure presente ed in qualche modo emblema della società e del Paese da cui scaturiva.
Va da sé che non si vuole qui affrontare una valutazione né di chi costituiva il jet-set né, tantomeno del fenomeno sociale in sé, si vorrebbe piuttosto posare lo sguardo su un’atmosfera particolare, dove lusso formava un binomio con il bello e non importa se questo binomio portasse il segno più o il segno meno, certo era che il bello, proprio nel senso di concetto di bellezza (si, quello perseguito, studiato, testimoniato da Marella Caracciolo Agnelli) faceva bene a tutti. E fa anche bene, dunque, a mio avviso, Matteo Renzi a non farci mai dimenticare che noi (noi in quanto Italiani) siamo portatori nonché custodi di bellezza. Non è questione di adesione politica, né di pronunciamento di parte, è solo stanchezza di guardare e vedere brutto anche nell’opulenza, nel lusso, è rimpianto della possibilità di alzare lo sguardo e sapere che il rosa di un tailleur a firma Chanel finirà per investire anche la realtà che mi circonda.
m.r.