Il popolo ha perso anche la forza di protestare. Le parole di un profugo che è riuscito a fuggire.
Da diverso tempo ormai in Venezuela si sta consumando, sotto gli occhi di tutto il mondo, una catastrofe economica, politica e umanitaria senza eguali nella storia dei paesi dell’America latina.
In questo ultimo anno, l’autoproclamazione a Presidente ad interim di Juan Guaidó, appoggiato dagli USA, e il fallito golpe del 30 aprile dallo stesso organizzato insieme agli oppositori hanno per alcuni istanti illuso il popolo venezuelano che forse ci potesse essere un barlume di speranza in fondo al tunnel del governo di Nicolás Maduro. Tutto è ritornato come prima: su Caracas e dintorni è calato di nuovo il silenzio.
Lo stipendio mensile medio di un venezuelano è di due dollari americani, un salario che non basta neanche per comprare un litro di latte al giorno, data l’inflazione non più quantificabile, figuriamoci per vivere o per protestare. Infatti ormai non protesta più nessuno: la paura delle ritorsioni del regime è diventata più forte della voglia di rivendicare per le strade i propri diritti. Si sopravvive con le briciole di qualche sussidio statale e chi può scappa alla ricerca di una vita, se non migliore, quanto meno dignitosa.
Dal 2015 ad oggi sono 4 milioni i Venezuelani che hanno lasciato il paese in fuga dalla grave crisi e la stragrande maggioranza di loro si è riversata negli Stati vicini, come in Colombia, con 1,2 milioni di Venezuelani residenti, in Brasile, che ha registrato 17.123 arrivi dall’inizio dell’anno, in Perú dove si contano 820 mila rifugiati e in Ecuador, in cui di rifugiati ne sono entrati 69 mila. Perú, Cile ed Ecuador hanno ultimamente iniziato a richiedere visti per cercare di contenere l’inarrestabile flusso migratorio.
Per le famiglie profughe dal Venezuela è diventata un’impresa ardua regolarizzare il proprio status, anche a causa della carenza, nei Paesi di accoglienza, di politiche pubbliche integrate in materia migratoria. Di conseguenza, spesso, i Venezuelani diventano vittime di discriminazioni, violenze, xenofobia, sfruttamento e abusi nei paesi di transito o di destinazione.
Nonostante le avversità della migrazione, però, ci sono ancora storie a lieto fine.
Una di queste arriva dal Cile e il protagonista si chiama Walter José Cerro Napolano.
– Walter parlaci di te
– Walter: “Mi chiamo Walter José Cerro Napolano, sono di nazionalità venezuelana, figlio di italiani che tanti anni fa emigrarono in Venezuela per offrire una vita migliore a me e ai miei fratelli”
– Quando e perché te ne sei andato dal Venezuela?
– “Sono andato via approssimativamente 3 anni fa, il 1 luglio del 2016, con destinazione Santiago del Cile. Me ne sono andato per dare un futuro a mio figlio e una vecchiaia degna a mia madre. D’altronde in Venezuela si stava vivendo in un clima di instabilità economica e lavorativa: vi ho vissuto 37 anni e la differenza tra il Venezuela degli anni ‘80 e il Venezuela odierno è enorme. Era uno dei Paesi più stabili e ricchi del Sud America, oggi invece vive in una dittatura mascherata”
– Quali erano le condizioni del Venezuela quando te ne sei andato?
– “Quando sono partito per il Cile, le condizioni economiche, sanitarie e occupazionali, che sono i pilastri fondamentali di una nazione, erano complicate e precarie. Si viveva in una grande instabilità: rapine, furti, omicidi, difficoltà a reperire cibo e medicine. Devo anche aggiungere che, dopo due settimane che sono arrivato in Cile, purtroppo è morto mio padre perché non è stato possibile trovare un anestesista per operarlo! Queste erano le condizioni del paese”
– Come sei riuscito ad andare in Cile e a trovare un lavoro?
– “Grazie ad un’amica venezuelana che vive in Cile da circa 20 anni. Sono riuscito a contattarla e grazie a lei e a suo padre sono partito, mi hanno offerto lavoro nella loro azienda, che produce sacchetti di plastica riciclabile. Li ringrazio di cuore tutti i giorni, sono la mia seconda famiglia”
– Hai trovato difficoltà di integrazione in Cile?
– “Come tutti i migranti ho trovato difficoltà di adattamento, ma, nonostante l’idiosincrasia cilena, con il tempo ho imparato a conoscere gli usi e i costumi e ho cercato di fare in modo che diventassero anche i miei. Oggi mi sento cileno e ringrazio questo Paese che mi ha permesso di realizzarmi in tutti gli aspetti della vita.”
– Adesso è diventato più difficile andarsene dal Venezuela? Chi dei tuoi familiari ci vive ancora?
– “Da quello che trasmettono i notiziari cileni e secondo quanto mi dicono familiari e amici che vivono ancora in Venezuela, adesso è molto più difficile uscire dal Paese. Ci sono sempre più impedimenti e spesso non si riescono ad avere i documenti per partire. Mia sorella si è trasferita in Colombia, in Venezuela sono rimasti i miei due fratelli e mia madre di 80 anni, che ha mantenuto la nazionalità italiana e non ha potuto rinnovare il suo passaporto scaduto perché tutte le ambasciate sono chiuse. A questo proposito vorrei sapere se la comunità italiana può fare qualcosa per i documenti di mia madre, affinché possa trasferirsi in Cile o in Italia.
– Secondo te può ancora accadere qualcosa che riesca ad abbattere la dittatura di Maduro?
Walter: “Lo spero. Spero che un giorno il Venezuela possa tornare ad essere quello che hanno conosciuto i miei genitori, ma sarà un processo lungo, non può avvenire dalla mattina alla sera”.
Un auspicio quasi rassegnato: la speranza che, in una qualche maniera, il Venezuela possa uscire al più presto dal baratro e recuperare quella dignità che al momento appare calpestata.
n.d.r. l’intervista è stata realizzata pochi giorni prima che anche in Cile esplodessero disordini e proteste. Che al momento, fortunatamente, sembrano aver risparmiato il nostro intervistato. Sembra incredibile come l’intera America latina, uno Stato dopo l’altro, si stia trasformando in una polveriera. Vi terremo aggiornati sugli sviluppi.