Via libera anche della Camera alla cancellazione dello scudo legale per ArcelorMittal. Allarme tra i sindacati per il crollo produttivo e la crisi del siderurgico. La questione ambientale rimane in secondo piano e verrà affrontata in data da destinarsi.
“La posizione del Governo è chiara, non esiste un’idea di piano industriale del Paese senza siderurgia”. Così il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, dopo il tavolo con i sindacati sollecitato in seguito alla cancellazione dello scudo legale per Arcelor-Mittal, confermata con voto del 31 ottobre dalla Camera.
Un altro tavolo, con la presenza dei vertici dell’azienda, si dovrebbe tenere a inizio novembre, per verificare il rispetto dei piani industriale, ambientale e occupazionale concordati. Piani che, secondo la segretaria generale di Fiom Francesca Re David, stanno subendo “battute d’arresto non accettabili”.
La preoccupazione dei sindacati è che la cancellazione dello scudo penale sia sfruttata dall’azienda come pretesto per rimodulare gli accordi sulla produzione e sull’occupazione. La nomina da parte di ArcelorMittal della nuova amministratrice delegata Lucia Morselli, esperta in ristrutturazioni d’impresa, sembra tendere in questa direzione.
La crisi dell’acciaio e il timore di esuberi. Nel trimestre luglio-settembre del 2019 l’ex Ilva ha conosciuto un crollo produttivo, con una perdita stimata di circa due milioni di euro al giorno. Come svelato da Repubblica lo scorso 23 ottobre, l’azienda necessita di una revisione al ribasso del contratto d’affitto della fabbrica, poiché la produzione è ferma a circa quattro milioni di tonnellate, circa due milioni al di sotto degli obiettivi previsti alla firma dell’accordo di gestione. Se infatti Arcelor-Mittal, alla conclusione della trattativa nel 2018, aveva previsto di raggiungere le sei milioni di tonnellate di produzione per il novembre 2019, già lo scorso maggio le stime erano state riaggiustate a cinque milioni, per essere ulteriormente corrette tra il luglio e il settembre scorsi con il ricorso alla cassa integrazione: dal 30 settembre 2019 ben 1.276 lavoratori sono in cassa integrazione ordinaria.
Il timore adesso è che venga preparato un nuovo piano di esuberi, con a rischio tra i 3 e 6mila posti. Ciò dipende in parte dallo stato manutentivo degli impianti e dal sequestro del quarto sporgente portuale in seguito alla morte a luglio dell’operaio trentunenne Cosimo Massari; in parte, ed è questo il fattore di maggior rilievo, dalla forte contrazione europea del mercato dell’acciaio. In area Ocse si assiste infatti da qualche anno a una sovraccapacità di produzione accompagnata da un considerevole aumento delle importazioni nel mercato europeo, con il crescente afflusso di laminati da Turchia, Cina, India e altri Paesi. La crisi dell’acciaio non è una novità e aveva spinto proprio Arcelor-Mittal a chiudere nel 2016 lo stabilimento di Sestao in Spagna e già nel 2012 a fermare gli altiforni di Florange, in Francia.
L’incertezza politica. Se il dato industriale non lascia ben sperare, neppure sul fronte politico le risposte sono rassicuranti. Per il Movimento Cinque Stelle la decisione di cancellare lo scudo legale appare come una manovra a posteriori per salvare la propria purezza morale, mentre le idee su quale debba essere il futuro dell’acciaieria di Taranto restano confuse, se non contraddittorie. Il pentastellato Mario Turco, sottosegretario alla presidenza del consiglio, ha dichiarato che Taranto dovrebbe immaginare un futuro senza Ilva “incentivo alla paralisi della città”. Ben diversa la posizione ufficiale del Governo: Patuanelli ha dato rassicurazioni sulla continuazione della produzione, così come Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti.
La questione ambientale. Nel frattempo a far da cornice alla questione già spinosa è l’impatto ambientale della più grande acciaieria d’Europa. La concessione al colosso franco-indiano era stata ovviamente subordinata alla realizzazione di un piano ambientale. Ad oggi sono state realizzate parzialmente solo le coperture dei parchi minerari che trattengono perlopiù le polveri pesanti. Come sottolineato dall’associazione ambientalista Peacelink, tuttavia, le emissioni di polveri sottili PM 10 e di polveri sottilissime PM 2,5 nell’anno di insediamento di Arcelor-Mittal sarebbero addirittura aumentate. Taranto presenta ormai da anni un’incidenza tumorale superiore alle medie nazionali, soprattutto nei quartieri a ridosso della fabbrica, primo su tutti il rione Tamburi.
Futuro incerto. L’incertezza politica dunque, ed insieme la crisi industriale e il pericolo di tagli all’occupazione. Guardando indietro alla storia dell’Ilva, dalla gestione Riva al commissariamento nel 2012, fino ad Arcelor Mittal nell’ultimo anno, gli ingredienti sembrano essere gli stessi e una soluzione continuativa lontana. Come evidenziava il giornalista e scrittore di origini tarantine Alessandro Leogrande, quando negli anni sessanta si decise di edificare un nuovo polo siderurgico al Sud dopo quello di Bagnoli, scegliere Taranto fu quasi automatico: “una città militar-industriale […] attraversata da una violenta crisi occupazionale”.
Lo stabilimento, arrivato ad avere il doppio della superificie dell’intera città, fu costruito a ridosso del centro abitato, senza soluzione di continuità. Da allora, è stata l’industria a plasmare lo sviluppo della città, a soffiare le sue polveri venefiche sui quartieri durante i giorni di vento, a dar da mangiare a migliaia di famiglie tra stabilimento e indotto. La politica, in particolare dai commissariamenti iniziati nel 2012, non è stata in grado di offrire soluzioni che andassero oltre momentanei palliativi, forse più utili a livello simbolico che per sciogliere il nodo presentato dalla necessità di trovare un compromesso tra le questioni industriale, occupazionale ed ambientale, tanto più intricato con l’irrompere della crisi dell’acciaio.