La disinformazione galoppa sui social: per avere credibilità ormai basta “pagare”

Secondo alcune stime il 74% delle fake news sul conflitto in Medio Oriente vengono da account “verificati”.

Roma – I social, negli ultimi tempi, dal punto di vista dell’informazione, stanno evidenziando tutte le loro lacune. Ebbero il loro momento di gloria con le cosiddette “primavere arabe”. Con questa locuzione giornalistica, utilizzata dai media occidentali, si intendono una serie di proteste scoppiate nei paesi arabi tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. In questo periodo assursero al ruolo di media tradizionali e permettevano a qualsiasi persona di fare cronaca in presa diretta, seppur senza consapevolezza.

Col feroce attacco di Hamas -organizzazione politica e paramilitare palestinese islamista- in Israele il 7 ottobre scorso, come ha sottolineato Ian Arthur Bremmer, noto politologo, “il livello di disinformazione sulla guerra tra Israele e Hamas che Twitter ha algoritmicamente promosso, è un qualcosa al quale non ho mai assistito prima nella mia carriera di analista politico”.

Meta elimina flussi d’informazione tradizionali per promuovere contenuti a pagamento.

In un decennio, quindi, i social hanno subito l’ “enshittification”, locuzione nota anche come decadimento della piattaforma, ovvero il modello di diminuzione della qualità delle piattaforme online. Qualcuno parla, addirittura di putrefazione. Gira e rigira è sempre una questione di “vil denaro”. Ad esempio, Meta –azienda che controlla i servizi di rete sociale Facebook e Instagram, i servizi di messaggistica istantanea WhatsApp e Messenger- ha ritenuto più utile eliminare il flusso d’informazione prodotto dai “legacy media”, cioè quei programmi non più diffusi, ma che continuano ad avere estimatori, perché hanno manifestato l’intenzione di essere pagati offrendo quei contenuti. Secondo alcune stime il 74% delle fake news sul conflitto in Medio Oriente vengono da account “verificati”. Telegram sembra un porto franco in cui le “Brigate Al-Qassam”, l’ala militare di Hamas possono fondare un loro canale, accumulando migliaia di iscritti.

Ormai, visto le condizioni in cui si trovano, i social non possono essere considerate come aziende editoriali e di telecomunicazioni e sottoporli ad obblighi di legge. Sono come un fiume in piena che riversa una sovrabbondanza di contenuti senza controllo, inserendosi come una muraglia tra il racconto dei fatti e la loro comprensione. Ed è tutto un propagare di immagini, foto, video e “bufale” a getto continuo. E con l’Intelligenza Artificiale (IA) lo scenario potrebbe essere ancora più inquietante. Allo stato attuale, l’IA ancora non ha raggiunto la perfezione e la maturità per essere usata nei conflitti armati. Le scene belliche che testimoniano il conflitto armato tra soldati o di una folla che scappa terrorizzata dopo un bombardamento non sono ancora nelle corde di apprendimento dell’IA.

Le piattaforme sociali rischiano di essere travolte dal dilagare delle fake news.

Ma della capacita di apprendere non si conoscono i suoi limiti, forse non esistono neppure. Molti studiosi consigliano di essere pronti a vivere in un mondo in cui non solo ognuno pretenderà la propria personale versione dei fatti, ma avrà la possibilità di accedere alle immagini attraverso le quali potrà dire tronfio e trionfante:

“Questa non è una versione dei fatti, è… La versione dei fatti”. Infine, in questi giorni crudeli si è assistito alla manipolazione di immagini datate, utilizzate per l’oggi, sempre con lo scopo di tirare la coperta da una parte o dall’altra. Un’immagine concepita dall’IA e diffusa come “vera”, in realtà, era già circolata sui social ai tempi del terremoto in Turchia e in Siria, verificatosi all’inizio di febbraio di quest’anno. L’aspetto sconvolgente è che la foto è stata visualizzata e condivisa moltissime volte e continua a esserlo ancora oggi. Perché i social riescono a fagocitarti in un meccanismo perverso, da cui è complicatissimo uscirne. “Signore e signori, ecco a voi l’IA”!

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