Tra regole politiche ed eccezioni tecnocratiche si è sviluppato negli anni un modo contorto di fare politica. E a farne le spese è il cittadino che ha a che fare con i soliti commedianti.
Roma – Dieci anni fa il progetto di Mario Monti, la famosa “Scelta civica”, si era infranto sugli scogli di un deludente responso elettorale. Un anno fa cadeva il governo di Mario Draghi spianando la strada alle elezioni che hanno consacrato la vittoria di Giorgia Meloni e del centrodestra. Due tecnici chiamati dai rispettivi Presidenti della Repubblica del tempo (Napolitano e Mattarella) ad aiutare il nostro malconcio Paese a risollevarsi da quella incapacità cronica, tipica dei nostri parlamentari, di trovare alleanze e programmi comuni.
Personalità diverse che hanno dovuto affrontare situazioni emergenziali differenti, di carattere economico il governo Monti; del Pnrr e pandemia quello di Draghi, ma unite (le due personalità) da un comune denominatore: la solidità della propria storia e la competenza in campo economico. Giorgio Napolitano addirittura nominò Monti, prima dell’incarico a premier, senatore a vita per spianargli la strada politica e conferire maggiore autorevolezza alla scelta che da lì a poco avrebbe fatto. Mario Draghi, invece, che ambiva a sostituire Mattarella alla presidenza della Repubblica, nonostante tanti elogi e complimenti dei parlamentari, questi ultimi gli sbarrarono la strada verso il Quirinale. Alcuni con l’intento di colpirlo e affondarlo, come poi è accaduto.
Altri, invece, con l’illusione che il suo governo, strada facendo, si potesse consolidare maggiormente, almeno questa era l’idea forse un po’ interessata di alcuni protagonisti della passata legislatura. Comunque, due intenti opposti. Il primo assai meno nobile. Il secondo ancor meno intelligente. Insomma, tra cospirazioni e complimenti per il prestigio che super Mario riusciva a portare in Europa, nel 2022 tolse il disturbo per essere stato ostacolato e criticato da alcune forze politiche, come il M5s capitanato da Conte. In ogni caso, la politica con i suoi naviganti, per qualsivoglia motivo, si liberò e continuerà a liberarsi dei vari tecnocrati di turno. Che i partiti intendano tenere in mano il bandolo della matassa politica non dovrebbe scandalizzare. Anzi è doveroso. È la fisiologia della democrazia. Però, per conservare questa loro sovranità, la gran parte delle volte le forze politiche utilizzano una lingua biforcuta. Il giorno prima, in campagna elettorale, fanno fuoco e fiamme. Il giorno dopo, al governo, fanno i conti con la realtà.
Quando poi perdono il controllo delle cose sono indotte a cercare un tecnico che funga momentaneamente da “salvatore della patria”. Salvo tornare punto e daccapo alla prima occasione utile. In questo modo però si finisce per ingenerare un inevitabile corto circuito. Infatti, i partiti si sono abituati a pensare che le parole più severe le debbano adoperare solo i tecnici. I quali a loro volta sono tentati di credere che l’accesso al potere e alla responsabilità politica possa passare per altre vie, non necessariamente quelle del consenso elettorale. Si affezionano subito. Ognuno, insomma, fa a metà il proprio compito.
E il governo della cosa pubblica, inevitabilmente, ne risente. In passato, invece, le cose andavano diversamente. I leader di una volta affrontavano le tempeste dell’opinione pubblica senza spavalderia e con un briciolo di forza d’animo. E accanto a loro i tecnici dell’epoca disegnavano scenari e prospettavano soluzioni sapendo che sarebbero stati ascoltati senza pesare troppo sulla bilancia elettorale. La collaborazione tra i due ambienti fu, in effetti, il motore dell’innovazione del dopoguerra, che proseguì fino a quando la prima repubblica non imboccò, anche per sua colpa, una vorticosa china discendente. Dopo cambiò tutto. La sostanza è che non si può abdicare dal proprio ruolo, se lo si vuole ricoprire, anche perché così come è successo vi potrebbe essere un vuoto che viene sempre colmato. E spesso sono problemi.