Nel nostro Paese la salute della magistratura deve fare i conti con svariati aspetti. Dettagli spesso dettati dal potere politico e imprenditoriale con la conseguente spaccatura fra i vari ambiti. Occhiate furiose a parte pare sia giunto il momento di rilanciare le nostre toghe partendo proprio dal desiderio di libertà e pulizia. Italia, se vuoi, puoi.
Roma – Si spengano le luci della ribalta, che hanno infiammato per tanti anni gli animi di molti italiani divisi tra “giustizialisti e garantisti”. Viva la magistratura, con tanti osanna e striscioni di fan, quando soprattutto il “pool di Mani pulite” scoperchiava i finanziamenti illeciti ai partiti della prima Repubblica.
Era un susseguirsi di cori che inneggiavano a quei valorosi magistrati che stavano indagando, in maniera diversa, su potenti, politici e imprenditori. Il desiderio di libertà e pulizia era talmente alto che faceva “piacere” constatare come finalmente persone alle quali non si poteva e voleva arrivare e che si ritenevano degli “intoccabili”, fossero finiti nel tritacarne giudiziario e mediatico.
La voce che circolava in ogni ambiente era che tutti conoscevano le varie realtà e dinamiche correnti, ma nessuno osava indagare nonostante la corale indignazione come sottofondo ipocrita. Tempi in cui la convivenza tra istituzioni e malaffare era salda e guai a gridare che la “piovra” soffocava le coscienze. Per molti neanche esisteva, ma tutti sapevano e nessuno osava parlare. Insomma, sia il potere politico, imprenditoriale e giudiziario erano accomunati dalla stessa “disistima” che contraddistingueva i vari ambiti sociali e professionali.
Così, quando il tappo delle ipocrisie è saltato, ecco allora tutti brindare e divenire per lo più giustizialisti. Pochi, per la verità, i garantisti, in quanto nessuno credeva realmente che vi fossero degli innocenti e incolpevoli, al di là delle personali responsabilità. Era il momento del massimo splendore di cui godeva la magistratura, che si era, in alcune parti d’Italia, intestata la via salvifica della purificazione ed espiazione dei malcostumi italici.
Tant’è che aumentarono a dismisura le iscrizioni nelle facoltà di “giurisprudenza”, poiché tutti avevano il desiderio di emulare quanto fatto da alcuni magistrati, sovraesposti mediaticamente, per il coraggio e la libertà che conferisce il ruolo e la “toga”. Certamente un po’ di narcisismo avrà anche influito per quest’ultima scelta universitaria, ma il “sentire comune”, diffuso ed osannato, era che in quel modo e con quel ruolo si avvertiva la piacevole e disperata sensazione di essere eroi solitari che determinavano il destino individuale e collettivo di una società malata che doveva essere curata, da una epidemia perniciosa che era basata sull’omertà, il potere, il piacere, l’arricchimento facile e interessato per tutte le parti in causa.
Nessuno escluso. Questo il punto. Attenzione perché l’etica, la moralità ed il disfacimento dei “costumi italioti” non è, in effetti, il compito della magistratura, la quale ha il dovere di indagare dove vi sono i presupposti chiari di reità e non altro. Però, molto spesso, nel calderone finisce un po’ tutto e allora il pasticcio e la confusione, o meglio sensazione, di avere la vocazione di interdizione sociale prende, purtroppo, il sopravvento e distorce ogni equilibrio creando “falsi profeti” e “untori”.
Una società, in tal modo organizzata, è perdente e ottiene, come poi è avvenuto nel tempo, una reazione a catena che si disvela pian piano, facendo emergere ingiustizie, vendette, spirito corporativo distorto, collusioni e indagini mirate per delegittimare il concorrente. Qualunque concorrente e in ogni ambito. Anche questo è stato acclarato e sigillato a futura memoria, nel bene e nel male.
Da qualche anno, ormai, si avverte un’aria diversa e non più solidale con la magistratura. Il caso Palamara è una delle tante cause, forse la più sconcertante ed eclatante, ma ve ne sono tanti altri di episodi, che hanno impoverito ed affievolito la fiducia ed intristito la nostra vita. Il processo Davigo, con la sua condanna in primo grado, è l’ultimo di una serie di casi che getta discredito a una categoria di uomini e donne che lavorano con competenza e serietà, contaminando un percorso di ricrescita e di re-union sociale importante e vitale per le istituzioni. Vi sono gli anticorpi per risollevarci. Crediamoci.