Monopolio dei laboratori di produzione, del traffico di stupefacenti e della prostituzione. Ecco fin dove si insinuano gli artigli della mafia cinese nella culla del Rinascimento. E il potere criminale dagli occhi a mandorla è in continua ascesa.
Firenze – La cultura sociale cinese è senza dubbio zeppa di discrezione e diffidenza. Il popolo si sta aprendo poco a poco alle tradizioni capitalistiche occidentali, soprattutto grazie alle nuove generazioni. La forza delle comunità sino-occidentali risiede senz’ombra di dubbio nell’unità e nella coesione che rivelano i cinesi soprattutto al di fuori dei loro confini nazionali. Così può capitare che le organizzazioni criminali orientali di lungo corso migrino dal continente della Grande Muraglia per raggiungere una di queste comunità ricche, riservate e coese, riuscendo a farne cosa propria nel tacito assenso generale. Prato è l’esempio di una comunità che porta su di sé grandi cicatrici che testimoniano la venuta di questa sciagura; l’ennesima “mafia”, quella cinese, che a noi italiani proprio non serviva.
La presenza della criminalità organizzata cinese veniva denunciata anni fa da Aldo Milone, ex assessore alla Sicurezza della Giunta Cenni (2009-2014). Il vertiginoso sviluppo dell’economia asiatica nel territorio della provincia di Prato creò un vuoto con un latente potere criminale assai vorace. Per le mafie italiane la difficile permeazione nel tessuto sociale cinese ha sempre costituito una questione spinosa e difficilmente gestibile. Proprio grazie a questa situazione i vertici della mala made in China ebbero la possibilità di consolidare le proprie attività illecite sul territorio toscano infiltrandosi nelle comunità lavorative asiatiche. Le indagini proseguono da più di un decennio, ma sembra che l’humus sociale e culturale di Prato abbia ormai cambiato faccia per sempre.
La lotta alla mafia orientale della città inizia nel 2009, nel tinello di una casa nella Chinatown pratese. Un corpulento cittadino cinese dal capo rasato non si aspetta che di lì a poco le forze dell’ordine entreranno nella sua abitazione per arrestarlo. Lo chiamano “Hesan” il monaco, perché tiene sempre la testa rasata. Il monaco è temuto, oltre che per la sua stazza, che supera il metro e novanta, anche per il suo esclusivo e cospicuo giro di affari: prostituzione, gioco d’azzardo e spaccio di droga. In seguito al suo arresto e il conseguente vuoto di potere, iniziava una nuova stagione di sangue fatta di vere e proprie mattanze. L’episodio sicuramente più significativo e impresso nel ricordo dei pratesi fu quello della rosticceria di Via Strozzi; il 17 giugno del 2010 due ragazzi cinesi vennero letteralmente fatti a pezzi a colpi di mannaia tra lo sconcerto dei passanti.
Appena dopo il rilascio “Hesan” veniva arrestato di nuovo poiché colto in flagranza di reato per sfruttamento della prostituzione. Per evitare ulteriori stragi causate dal vuoto nella leadership, durante la detenzione in carcere del monaco prendeva il potere, autoproclamandosi “capo dei capi“, Zhang Naizong detto il “Nero“. Così si faceva chiamare il boss che al tempo era già conosciuto in tutta Europa, soprattutto nelle maggiori comunità cinesi per la ferocia e la determinazione con cui gestiva gli affari. L’uomo instaurava così una sorta di “pax mafiosa” e l’intero racket toscano passò nelle sue mani e in quelle di Lin Xia che, secondo gli inquirenti, fungeva da punto di contatto tra il clan e diversi poliziotti corrotti.
La profonda radicazione criminale di Zhang Naizong cambiava per sempre la società economica toscana, soprattutto a Prato. Con l’ausilio di colletti bianchi ed esperti di finanza italiani la triade riuscì ad insinuarsi anche nell’acquisizione di aziende in crisi, sfibrando inesorabilmente il tessuto sociale locale. Il “Nero” era dappertutto. Rifiuti, prostituzione, gioco d’azzardo, stupefacenti e soprattutto nel vero core business della mafia cinese: la tratta di esseri umani. Naizong arrivò ad essere uno dei maggiori esponenti di spicco della criminalità con gli occhi a mandorla in Italia. A suffragio di questa tesi ci sono numerose intercettazioni carpite durante il matrimonio del figlio di Naizong nelle quali quest’ultimo viene messo in guardia dal fratello su presunte infiltrazioni mafiose all’interno della stessa cerimonia. Zhang Naizong commentò così la preziosa informazione:
“…Se vengono qui da me sanno come comportarsi …noi non dobbiamo pensare troppo, sono cose che non ci riguardano…Normalmente non può succedere una cosa del genere, anzi non esiste proprio…”
L’operazione battezzata “China Truck“, condotta dalla Squadra mobile di Prato e dalla D.I.A. di Firenze, portò nel 2018 all’arresto di 33 persone. Tutti i soggetti fermati furono riconosciuti sodali con ruolo apicale all’interno dell’organizzazione criminale. Prato divenne cosi, suo malgrado, la capitale mondiale della mafia cinese, secondo le dichiarazioni del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. Tutto fumo e niente arrosto. I 33 mammasantissima venivano tutti scarcerati dopo 20 giorni. Il tribunale del Riesame non aveva ravvisato gli estremi del 416 bis, e la stessa cosa aveva fatto la Cassazione con due pronunce con le quali confermava la scarcerazione. Gli estremi del rilascio fanno intuire quanto il potere criminale della triade avrebbe influito energicamente e in maniera trasversale.
La coda dell’inchiesta “China Truck” ha portato all’apertura di un altro processo ai danni della cosca asiatica. Il 17 febbraio scorso si sarebbe dovuto aprire il procedimento penale a carico di 55 cittadini cinesi e 7 italiani, tutti imputati per i reati connessi alle attività illecite legate alla mafia cinese. A causa di difetti di notifica che hanno riguardato un numero cospicuo di imputati, è stato impossibile raggiungerli con la comunicazione della prima udienza. Molti di questi, infatti, non avevano eletto domicilio presso il proprio legale, quindi tutto rimandato al 23 settembre prossimo. Va da sé che tutti gli imputati sono da ritenersi innocenti sino a condanna definitiva. Ci mancherebbe.
Ma non basta. Due cittadini cinesi venivano gambizzati il 31 agosto scorso mentre cenavano in un ristorante di Prato. I sicari, a volto coperto, avrebbero sparato per un regolamento di conti. Il 13 settembre sono andati in fiamme tre laboratori tessili al Macrolotto, l’origine dell’incendio è sicuramente dolosa. Il processo si avvicina e l’escalation di violenza va di pari passo. La giustizia è chiamata a dare risposte, sempre che si riesca ad arrivare al processo.