La ginecologa si sarebbe tolta la vita a seguito dei soprusi e del mobbing subìti all’interno del suo reparto. Le ricerche non si sono mai fermate e nei giorni scorsi forze dell’Ordine, vigili del Fuoco, Protezione civile e volontari, coadiuvati da cani molecolari e mezzi tecnici, si sono concentrati nel grande lago in Val di Non. Si cerca sulle rive, fra la vegetazione e nei fondali il corpo senza vita della donna.
Cles – Dal 28 maggio scorso proseguono con maggiore vigore le ricerche del corpo di Sara Pedri, la ginecologa di 31 anni scomparsa da casa il 4 marzo dell’anno scorso dopo le dimissioni dall’azienda ospedaliera dove lavorava. Forze dell’ordine, vigili del Fuoco e protezione civile si sono concentrati nei dintorni del lago di Santa Giustina, bacino artificiale situato al centro della Val di Non, in Trentino, alimentato dal torrente Noce e parte del quale ricade nel territorio di Cles, paese dove risiedeva la dottoressa sparita nel nulla.
Al lavoro anche i cani molecolari che avrebbero fiutato, sulle rive del lago, la presenza della donna ma è ancora presto per qualsiasi ipotesi anche se le speranze di ritrovare viva la specialista vessata e mobbizzata dai baroni in camice bianco sono ridotte al lumicino:
”…Sara è lì, sono sicura che prima o poi verrà fuori – afferma Emanuela Pedri, sorella della professionista – mi fido ciecamente di chi fa le ricerche…Hanno fatto un nuovo sopralluogo, una perlustrazione usando mezzi più massivi… Il lago è estremamente profondo, ancora adesso l’acqua è profonda almeno trenta metri. Ma i cani hanno annusato nello stesso punto dell’anno scorso. Lei è lì, nel lago… La nostra speranza rimane intatta. Sono sicura che la troveranno. Ci vuole del tempo…”.
Sara Pedri lavorava all’ospedale Santa Chiara di Trento. Il giorno prima della sua scomparsa aveva dato le dimissioni. La famiglia, rappresentata dall’avvocato Nicodemo Gentile, ha evidenziato lo stato di angoscia ed i reiterati soprusi subiti dal medico nel proprio reparto. Dalle denunce si era passati all’odierna inchiesta, coordinata dai Pm Licia Scagliarini e Maria Colpani della Procura di Trento, che vede due indagati fra i sanitari del reparto, l’ex primario Saverio Tateo, licenziato, e la sua vice Liliana Mereu, trasferita a Catania. Entrambi, rispettivamente difesi dagli avvocati Salvatore Scuto e Franco Rossi Galante, sono accusati di maltrattamenti e abuso di mezzi di correzione.
Oltre Pedri ci sono anche numerose parti offese. Altri 21 medici che hanno denunciato il clima di violenza che si respirava nelle corsie di Ginecologia dell’ospedale Santa Chiara e che pare fosse lo stesso da anni. Sara Pedri era stremata e demoralizzata:
”… L’esperienza a Trento doveva essere formativa ma purtroppo ha generato in me un profondo stato d’ansia a causa della quale sono completamente bloccata – scriveva la ginecologa in una lettera ritrovata dai carabinieri nella sua casa di Cles – i risultati ottenuti sono solo terrore. Sono stata addirittura chiamata a colloquio perché ho perso troppo peso…”.
I responsabili di una simile condotta da lager nazista dovranno spiegare il perché del loro comportamento ed i vantaggi, o gli interessi, che ne avrebbero potuto trarre, vanagloria e senso del potere a parte. Anche Sara, come altre colleghe, aveva ottenuto un certificato medico con 15 giorni di prognosi nel febbraio 2021 a causa di un “calo ponderale” dovuto a “stress lavorativo”.
Dopo appena una settimana però la ginecologa era tornata a Trento. Il giorno dopo, il 3 marzo, usciva dall’ospedale e spariva come un fantasma. Seguivano l’invio degli ispettori del ministro della Salute, Roberto Speranza, l’inchiesta amministrativa del presidio ospedaliero, le verifiche dell’Ordine dei Medici ma, soprattutto, l’apertura del fascicolo penale con i due sanitari iscritti sul registro degli indagati.
Nel dicembre scorso il giudice per le indagini preliminari Enrico Borrelli accoglieva la richiesta dei due pubblici ministeri di sentire, attraverso un incidente probatorio, nove testimoni, su quanto accadeva in quel maledetto reparto dove i vertici, come sembra, erano più indaffarati a consolidare il proprio pugno duro con i sottoposti che a curare le pazienti. La famiglia Pedri aveva espresso il desiderio di un processo a porte aperte:
”… Leggendo le trascrizioni delle testimonianze insieme a mia mamma – scriveva sui social Emanuela Pedri – sono arrivata alla conclusione che le udienze avvenute e quelle che seguiranno dovrebbero svolgersi a porte aperte con la partecipazione piena del ministro del Lavoro, di tutti i sindacati d’Italia, dell’azienda sanitaria e della politica…”.