Dopo la pandemia però c’è stato un cambio di paradigma: il “quiet quitting” ha generato un approccio diverso, meno totalizzante.
Roma – I troppi impegni danneggiano la salute! Nella società odierna che va a mille all’ora, il tempo costituisce un aspetto importante, soprattutto per le relazioni umane. Esso è scandito da un ritmo frenetico di impegni, figlio della cultura della produttività ad ogni costo. Quante volte si è sentita una risposta di questo tipo ad in invito di un incontro: “Guarda, proprio non posso. Ho l’agenda colma di impegni”. Le ultime teorie del “consumer marketing” (marketing del consumatore), suggeriscono che la concezione del tempo è un fatto simbolico e non utilitario ed è correlato alla sua penuria.
Ad esempio, i prodotti di lusso meno ce ne sono, più cresce la percezione del suo valore. Non è la stessa cosa per le persone. Chi, pieno di orgoglio, dichiara di non avere tempo, con molta probabilità nasconde delle fragilità del proprio carattere, in quanto privo di attitudini emozionali che riguardano il rapporto con sé stesso e con gli altri. Il modello della cultura frenetica, legato all’enfatizzazione del duro lavoro e degli orari prolungati, negli ultimi decenni si è diffuso rapidamente nella società, tanto da trasformarsi in un vero e proprio totem. Il lavoro, quindi, come indice di successo e di importanza sociale. Anche se, recenti ricerche, dopo la pandemia, hanno riscontrato, in una buona parte di popolazione, un cambio di paradigma, mettendo il benessere individuale davanti al successo sul lavoro.
Ed il fenomeno del “quiet quitting” (uscire in silenzio) – un approccio diverso all’attività professionale: meno totalizzante, meno impattante sulla vita delle persone, fare il minimo indispensabile – va in questa direzione. In questa visione del mondo, il lavoro, che assorbe totalmente l’individuo a discapito della vita affettiva, rivela una profonda insicurezza. Una maniera per colmare altre carenze, per non porsi domande sull’esistenza e su cosa ci facciamo sulla faccia della Terra. Quindi, l’impegno totalizzante diventa la sola ragione d’essere dell’esistenza. Essere sopraffatti dagli impegni, crea, in realtà, una forma di distanza tra gli individui. Ma, potrebbe nascondere anche sintomi più gravi e complicati da decifrare come il “burnout”.
Con questo termine si intende un un insieme di sintomi frutto di una condizione di stress cronico e persistente associato al contesto lavorativo, in cui l’individuo non dispone di risorse e strategie comportamentali o cognitive adeguate a fronteggiarlo. Sentirsi sulle spalle il fardello di avere troppe incombenze da assolvere incute una sorta di paura. Il trascorrere del tempo fa avvertire con maggiore forza le responsabilità lavorative e familiari, innescando un processo duale. Una condizione di questo tipo può far sentire il soggetto quasi un modello da imitare, anche perché nella fase iniziale ci si sente ringalluzziti provando piacere e soddisfazione.
Le endorfine prodotte da questo stato emozionale fungono da carburante per la persone e le aiutano a raggiungere gli obiettivi prefissati ed ad assolvere ai compiti richiesti. Senza rendersi conto di impelagarsi in un meccanismo perverso che causa solo negatività. In questo caso, bisognerebbe fermarsi, ma non sempre si ha l’intuito per farlo!